Inquinamento atmosferico

Sos Clima: la sindrome di Greta-Cassandra

di Mauro Alvisi e Antonietta Malito

La Terra è in pericolo e con essa l’intera umanità. I repentini cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova la capacità di adattamento di tutti gli esseri viventi. 

L’impatto del riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, il progressivo innalzamento del livello del mare, i numerosi e devastanti incendi boschivi, gli eventi metereologici estremi (siccità, alluvioni, uragani, ondate di calore) sono fenomeni a cui assistiamo sempre più spesso, che determinano ovunque danni economici, distruzione e morte. Ma la cosa più preoccupante è che – sulla base di ciò che sostengono gli esperti – ci si aspetta possano diventare ancora più intensi e frequenti nei prossimi anni. 

Non c’è più tempo da perdere. Servono interventi urgenti e mirati per salvare il salvabile. Intervenire prima che sia troppo tardi è un imperativo ma anche un dovere a cui nessuno può più sottrarsi. 

La Cop26 di Glasgow

I cambiamenti climatici e i possibili rimedi da attuare per limitare le conseguenze sull’ambiente e sulle persone sono stati i temi al centro della recente Conferenza delle Nazioni Unite, nota come Cop26 (ovvero la 26esima “Conferenza delle parti”), che si è svolta a Glasgow (Regno Unito, Scozia) dal 31 ottobre al 12 novembre. 

Il vertice internazionale, fortemente influenzato dalla pressione di milioni di giovani che si sono mobilitati nelle strade e nelle piazze di mezzo mondo, ha ospitato oltre 30mila delegati, tra cui i rappresentanti di 197 Paesi, esperti climatici e attivisti. La Conferenza è servita ai grandi della Terra per discutere, negoziare e raggiungere quei compromessi indispensabili per porre in essere le misure e i sistemi di controllo necessari per produrre, nel medio-lungo termine, il cambiamento di cui il pianeta ha bisogno per sopravvivere. 

Dalla Conferenza sul clima più importante di sempre, sono emersi, in particolare, tre risultati di rilievo: mantenere la temperatura entro 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali; ridurre gradualmente l’uso del carbone come fonte energetica e arrestare i sussidi economici e finanziari ai combustibili fossili; gli Stati che il prossimo anno non avranno ancora aggiornato i propri piani nazionali di riduzione delle emissioni, in linea con l’obiettivo suddetto, dovranno presentarli alla Cop27 d’Egitto, consentendo a tutto il mondo di allinearsi. 

Il Centro per la resilenza ai disastri ambientali dell’Università di Twente

Presso l’Università di Twente (Paesi Bassi) opera una struttura all’avanguardia nel campo della resilienza ai disastri ambientali: il Center for Disaster Resilience (Cdr), che riunisce le competenze di un’ampia gamma di ricercatori, dipartimenti e discipline interconnessi all’interno della Facoltà Itc (Scienze della Geo-informazione e osservazione della Terra) della città di Enschele. 

L’importante Centro è stato inaugurato il 28 ottobre scorso dalla principessa dei Paesi Bassi, Margriet Francisca, zia dell’attuale sovrano Guglielmo Alessandro, e da suo marito, il professor Pieter van Vollenhoven. L’inaugurazione, che ha coinciso con i 70 anni dalla fondazione dell’Itc, ha rappresentato l’occasione ideale per discutere sulla collaborazione e la ricerca interdisciplinare, con l’obiettivo di sviluppare e rafforzare la resilienza globale di fronte ai disastri. 

Il Centro dell’Università di Twente rappresenta il culmine dell’esperienza raggiunta dalla Facoltà Itc fino a oggi nel campo della resilienza ai disastri, delle cause alla base degli stessi e del loro impatto sulla società. Esso mira a facilitare lo scambio di conoscenze sviluppate presso le università e altri partner, come il Royal Netherlands Meteorological Institute (Knmi), la Croce Rossa e le organizzazioni locali, consentendo loro di operare in modo più efficace ed efficiente. Obiettivo del Cdr è prevenire che le persone restino vittime di questi disastri e contribuire a garantire che condizioni meteorologiche più estreme non conducano a disastri più estremi. All’inaugurazione erano presenti la professoressa Irene Manzella, che ha assunto l’incarico di coordinatrice del Cdr, e il professore Maarten van Aalst, detentore della cattedra Princess Margriet Climate and Disaster Resilience presso l’Università di Twente e direttore del Centro internazionale per il clima della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, che ha partecipato alla Cop26 di Glasgow. 

Irene Manzella  l’italiana alla guida del Cdr

Irene Manzella

È novarese la coordinatrice del Centro per la resilienza ai disastri ambientali (Cdr) dell’Università olandese di Twente. Prima di assumere questo importante incarico, la scienziata, che è anche professore associato in Ingegneria Geotecnica per la gestione del rischio, ha insegnato per quattro anni presso l’Università inglese di Plymouth. 

Laureata in Ingegneria per l’ambiente e il territorio al Politecnico di Milano, Irene Manzella ha conseguito nello stesso ateneo un Master di alta formazione in “Riqualificazione insediativa per la cooperazione e lo sviluppo”, a cui è seguito un dottorato di ricerca presso l’Ècole Polytechnique Fédérale di Losanna (Svizzera). La ricercatrice ha lavorato negli anni sulla teoria per migliorare i modelli e la resilienza ai disastri, realizzando alcuni prototipi in laboratorio (per frane, vulcani, inondazioni). 

La sua lunga esperienza accademica l’ha portata in giro per il mondo. È stata in Nicaragua, Francia, Germania, Svizzera, Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Gran Bretagna. Da qualche anno, ormai, a seguirla nei suoi sempre più frequenti trasferimenti, ci sono suo marito Stefano e i due figli di 9 e 4 anni. 

Da una sua idea è nato un video di sensibilizzazione ai disastri ambientali, realizzato con l’aiuto dell’artista Carey Marks. Il filmato, disponibile sul sito del Centro per la resilienza ai disastri ambientali, oltre a presentare la struttura, si propone di spiegare in maniera semplice, attraverso una serie di disegni, di cosa essa si occupi nello specifico. Oggi, Irene Manzella guida il Centro con grande impegno e passione, inseguendo il sogno di rendere la Terra un posto migliore.

Maarten van Aalst è uno dei più noti climatologi al mondo. Il professor Maarten van Aalst dirige il Centro internazionale per il clima della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa e detiene la cattedra Princess Margriet in Climate and Disaster Resilience, istituita nel 2018 presso la Facoltà di Scienze della Geo-informazione e osservazione della Terra (Itc) dell’Università di Twente. Van Aalst ricopre incarichi aggiunti presso l’Istituto di ricerca internazionale per il clima e la società della Columbia University e presso l’University College di Londra. È coordinatore dell’autore principale presso l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici, e fa parte del Gruppo consultivo scientifico e tecnico dell’Undrr (United Nations Office for Disaster Risk), del Leadership Group dell’UN Climate Resilience Initiative A2R (Gruppo direttivo dell’iniziativa di resilienza climatica delle Nazioni Unite), del gruppo direttivo dell’alleanza Partners for Resilience, e comitati consultivi di diversi programmi di ricerca internazionali sulla gestione del rischio climatico. Dopo aver completato un dottorato di ricerca in Scienze atmosferiche presso l’Università di Utrecht (Paesi Bassi) e il Max Planck Institute di Magonza (Germania), ha lavorato sull’adattamento ai cambiamenti climatici e sulla gestione del rischio di catastrofi con organizzazioni come la Banca mondiale, le banche di sviluppo regionale, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo svilippo economico), l’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) e diversi governi. 

– Lei è alla guida di questo importante Centro presso l’Università olandese di Twente. Di cosa si occupa questa prestigiosa struttura e quali obiettivi si prefigge di realizzare?

«Il Centro per la resilienza ai disastri (Cdr) della Facoltà di Geo-informazione e osservazione della Terra (Itc) dell’Università di Twente è un Centro di nuova costituzione, sorto per consentire di coordinare i lavori e gli sforzi in corso e già in atto presso l’Istituzione, per rafforzare e migliorare ulteriormente la collaborazione all’interno dell’università e in tutto il mondo e, soprattutto, per sviluppare una visione innovativa, originale e fresca, interdisciplinare e partecipativa della resilienza ai disastri, in quanto non vi è alcuna riduzione del rischio senza un approccio olistico, sinergico, focalizzato e comunitario».

– In un mondo orientato verso l’iperspecializzazione, auspicare la consapevolezza di un sapere e di un agire unitario in difesa dell’ambiente è ancora possibile o è mera utopia?

«È assolutamente possibile, se c’è un interesse e uno sforzo comuni. È una questione di scala dimensionale. Lavorare su diversi livelli è possibile e necessario. Abbiamo bisogno di una visione più specializzata e, diciamo, su micro-scala, per comprendere i fenomeni, poi abbiamo bisogno di ridurre lo zoom da quella per vedere le implicazioni che tale comprensione ha sul funzionamento generale dei nostri sistemi e società troppo complicati e iperconnessi. Quindi, non credo che uno escluda l’altro, possiamo continuare ad avere un approccio iperspecializzato insieme ad azioni unificate e più olistiche su scala più ampia».

– Da una sua idea è nato un video di sensibilizzazione ambientale che si propone, attraverso l’arte, di realizzare un mondo più a misura d’uomo. Perché ha pensato al disegno come allo strumento ideale per “educare” la coscienza collettiva? 

«Come esseri umani comprendiamo meglio usando tutti i nostri sensi. Credo che l’arte sia il modo migliore per svegliarne la maggior parte di essi e quindi conservare concetti e memorizzarli. Credo anche che parli ai nostri cuori non solo alle nostre menti e possa essere un potente strumento per comunicare e raggiungere le comunità. Essa può avere un impatto molto maggiore nell’aumentare la consapevolezza diffusa, che è un elemento chiave nella preparazione alle catastrofi e quindi nella resilienza. L’arte è anche la chiave per sviluppare l’approccio partecipativo di cui abbiamo bisogno, per attuare davvero un serio cambiamento. Ho intenzione di continuare a collaborare molto con gli artisti nel mio ruolo di coordinatrice del Centro e anche nella mia ricerca».

– Pensando alle minacce che incombono sull’ambiente, quali sono, secondo lei, le opportunità su cui occorre necessariamente puntare in uno scenario di breve-medio periodo?

«In termini di opportunità, dobbiamo sfruttare tutti i nuovi sviluppi tecnologici e scientifici per trovare soluzioni alternative e più efficaci ai disastri. L’Itc, con la sua vasta esperienza in Geo-informazione, è estremamente ben posizionato per farlo, ecco perché ho accettato questo ruolo, anche se significa trasferire tutta la mia famiglia in un altro Paese e molte altre sfide personali e professionali. Attraverso le proprie comunità di laureati ed ex allievi in tutto il mondo e la loro collaborazione anche con la rete 4TU ci sono le basi per costruire davvero qualcosa di utile, che possa guidare un vero cambiamento».

– Quali sono, invece, le emergenze da affrontare nell’immediato? 

«C’è molto su cui lavorare, c’è l’urgente necessità di intraprendere azioni concrete e a breve termine per ridurre l’aumento della temperatura e gli effetti dei cambiamenti climatici, compresi gli impatti sempre crescenti dei disastri. Difficile dire quali siano quelle più urgenti, la situazione è talmente critica che dobbiamo lavorare su tanti fronti diversi per poter vedere qualche cambiamento, per piegare un po’ quelle curve ripide. Sicuramente i governi devono impegnarsi concretamente per raggiungere le emissioni nette pari a zero, ma come scienziati dobbiamo rivedere i nostri modelli per adattarli ai mutevoli periodi di ritorno, all’alta intensità imprevista e agli eventi a cascata, integrando le tecnologie digitali per migliorare i sistemi di allerta precoce. Dobbiamo considerare i rischi sistemici, la vulnerabilità in tutti i suoi diversi aspetti e dobbiamo lavorare insieme alle comunità, agli stakeholder, alle autorità locali e nazionali per rendere attuabili le azioni di gestione del rischio».

– Esiste già un modello di resilienza che sia in grado di influenzare le decisioni strategiche dei governi e la società civile?

«Esistono diversi modelli per la resilienza, il problema è la loro attuale, effettiva implementazione e applicazione. C’è un’analisi costi-benefici alla base delle decisioni prese dai governi e dalle società. Il problema è riuscire a vedere benefici e costi non solo a breve termine ma anche a lungo termine. Anche se ormai il lungo periodo si sta accorciando sempre di più e la crisi climatica sta sensibilizzando progressivamente la popolazione. Quindi, c’è la speranza che almeno questo porti, infine, ad azioni più concrete».

– I disastri climatici sono sempre più frequenti in ogni parte del mondo. Pensa che dobbiamo abituarci a convivere con questi eventi estremi? 

«No, assolutamente no, se abituarsi significa non fare il possibile per affrontare la crisi climatica e agire concretamente. Sicuramente questi eventi stanno diventando più comuni, ma dobbiamo fare il possibile per ridurne il rischio ed evitare che aumentino ancora di più».

– La diffusione di fake news, in casi come la pandemia da coronavirus, ha generato ovunque grande confusione e panico. Oggi, a conclusione di Cop26, quali responsabilità ha l’informazione e quali effetti l’infodemia potrebbe avere sulla resilienza ai disastri ambientali?

«Non sono un’esperta degli effetti dell’infodemia, ma credo che in questo ci sia una doppia componente. Sicuramente la comunicazione e l’utilizzo dei social media hanno ampiamente diffuso la conoscenza delle problematiche sollevate dalla Cop26, suscitando in parallelo un flusso di fake news che può portare all’inerzia di una parte della popolazione. Per quanto riguarda il covid, c’è stata un’ampia diffusione di fake news ma anche di informazioni importanti e utili. Per i disastri è necessario istruirsi su come distinguere tra notizie vere e false e comprendere l’impatto nefasto che quelle false potrebbero avere sugli sforzi e sui progressi che stiamo facendo per aumentare la nostra resilienza».

– Come inquadrare il fenomeno mediatico dell’attivista Greta Thunberg nell’ambito della resilienza consapevole ai disastri? Le prossime generazioni saranno quelle di una intelligenza collettiva cooperante per il bene pubblico? 

«La mia esperienza personale con le mie nipoti adolescenti è che sono molto più consapevoli della situazione e delle sfide che stiamo affrontando ora con il Friday for Future e l’importanza data alla protesta di Greta Thunberg a livello globale. Possono identificarsi con lei e condividere le sue preoccupazioni e la sua battaglia. 

La vedo come una voce positiva e necessaria come sono quelle di altri giovani attivisti per il clima come Vanessa Nakate, Xiuhtezcatl Martinez, Leah Namugerwa, Eyal Weintraub, David Wicker e molti altri. Queste voci sono importanti per le nuove generazioni e altrettanto, se non di più, per quelle passate. Dobbiamo ascoltarle con attenzione, abbiamo molto da imparare da loro».

– Professor van Aalst, lei che è reduce dalla Conferenza di Glasgow, come valuta questo evento? Cosa ha rappresentato per il mondo? Lo considera di portata scientifica e ricaduta strategica sufficiente per i decision maker del pianeta?

Marteen Van Alst

«La Cop26 è stata “un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto” allo stesso tempo. I responsabili politici hanno ascoltato il contributo scientifico offerto dall’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) e hanno riaffermato l’importanza di evitare che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi, a far data dall’era preindustriale. Hanno anche riconosciuto che il clima sta già cambiando e che occorre fare di più per adattarsi e gestire i rischi crescenti. Tuttavia, mentre i Paesi hanno concordato alcuni passi avanti positivi, il pacchetto di misure sancito e stipulato non è sufficiente per raggiungere effettivamente quell’obiettivo di temperatura o per sostenere l’adattamento con il giusto livello di propositi, specialmente nei Paesi più poveri».

– Quali risultati ha prodotto Cop26? Quali saranno, secondo lei, le conseguenze delle scelte e delle non scelte che ne sono derivate?

«Il risultato principale potrebbe essere il riconoscimento globale che ci troviamo in un mondo che cambia pericolosamente e pertanto dobbiamo aumentare la nostra aspirazione sia nella riduzione dei gas serra, sia nel fronteggiare i crescenti rischi che già affrontiamo oggi. A mio avviso, le misure concrete su cui i Paesi hanno concordato una linea di conduzione non sono ancora pienamente all’altezza delle stesse aspettative. Tuttavia, gli Stati presenti hanno deciso di aumentare nuovamente gli obiettivi concreti per il prossimo anno. Questo proposito, la promessa di Glasgow, ora deve essere portata avanti in tutto il mondo, nei singoli Paesi, aziende, città e famiglie. La mia unica preoccupazione è che mentre stiamo facendo progressi, non li stiamo facendo abbastanza velocemente. Il problema sta peggiorando più celermente di quanto le nostre soluzioni stiano migliorando…».

– Potrebbe abbozzarci una breve visione dei best and worst scenarios che si prospettano in questo decennio 2020-2030 per i cambiamenti climatici e i disastri ambientali?

«Il cambiamento climatico che dovremo affrontare nel prossimo decennio è quasi interamente determinato dalle emissioni passate. Quello che facciamo per le emissioni è principalmente importante per i cambiamenti climatici che affronteremo più avanti. Quindi, indipendentemente da ciò che facciamo sulle emissioni di gas serra, per il prossimo decennio affronteremo eventi più estremi di quelli a cui siamo stati abituati in passato, inclusi eventi catastrofici senza precedenti, come l’ondata di caldo canadese della scorsa estate, ma anche le inondazioni tedesche, gli incendi mediterranei, australiani e americani, gli uragani più frequenti, ecc. Inoltre, ci aspettiamo più eventi composti, come quando si verificano forti piogge in aree appena colpite da incendi, che le rendono più vulnerabili a inondazioni e frane. In particolare, nei Paesi a più basso Pil, i rischi stanno aumentando anche a causa dei modelli di sviluppo, ad esempio la crescita delle città lungo le coste o alla foce dei grandi fiumi, con insediamenti informali spesso nelle aree più soggette a inondazioni. Quindi, il grande fattore che determina gli scenari di cui si tratta, è come gestiremo il rischio. Se siamo meglio preparati, possiamo affrontare molte delle sfide che ci vengono incontro. Ma se le disuguaglianze persistono e se ignoriamo il modo in cui aumentano i rischi, assisteremo a perdite e danni sempre più rilevanti». 

– La politica e la diplomazia occidentale e orientale, anche tra singoli stati, si trovano spesso tra opposte fazioni sui temi ambientali. Questo vale anche per la scienza?

«Nel Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) siamo molto fortunati a lavorare con una comunità globale di scienziati, con autori dell’attuale sesto rapporto di valutazione, di oltre 90 Stati in tutti i continenti e provenienti dai Paesi più ricchi e più poveri. Sebbene spesso portiamo prospettive complementari agli stessi problemi, condividiamo principalmente una comprensione molto chiara e comune del rischio che l’umanità deve affrontare e delle soluzioni che possono aiutare ad affrontarlo».

– Potrebbe elencarci cinque irrinunciabili mosse da attuare per la salvezza del pianeta, nel breve-medio periodo? 

1. «La prima priorità è semplice ma anche enorme: ridurre le emissioni di gas serra molto rapidamente. Ciò significa un immane sforzo in tutti i settori e in tutti i Paesi. I governi devono definire le politiche, ma le aziende e gli individui dovranno fare delle scelte. 

2. La seconda priorità riguarda l’adattamento. Dobbiamo investire nella nostra capacità di prosperare in un clima che cambia, analizzare i cambiamenti che stanno arrivando e prepararci a condizioni mutevoli. 

3. La terza priorità è aumentare la nostra capacità di affrontare shock e sorprese. È inevitabile che affronteremo più frequentemente condizioni senza precedenti e non possiamo stare al sicuro solo con un’ingegneria o un’agricoltura più intelligenti. Dobbiamo essere pronti ad affrontare tali condizioni quando si presenteranno. E questo spesso include un’attenzione speciale ai gruppi più vulnerabili della società. Per esempio, nella mia terra, i Paesi Bassi, bisogna pianificare ora la cura degli anziani durante un’ondata di caldo (che non era un pericolo di cui ci preoccupavamo prima del cambiamento climatico). Su scala globale significa anche sostenere i Paesi più poveri nell’affrontare le crescenti perdite e i danni che stanno subendo in un clima che cambia. 

Questo mi porta alle ultime due priorità, che sono davvero azioni abilitanti. 

4. La quarta priorità riguarda la solidarietà. Possiamo affrontare questo problema solo se riconosciamo che le spalle più forti devono sopportare il carico più pesante. Per inciso, i Paesi più ricchi (e le persone), che dovrebbero sostenere i più poveri, sono anche quelli con le più alte emissioni storiche, quindi sento che hanno anche la responsabilità morale di fornire quel sostegno alle persone più povere che hanno contribuito di meno al degrado ambientale, stanno soffrendo di più e hanno una minore capacità di affrontare i rischi crescenti. 

5. La priorità finale è aumentare la consapevolezza tra la popolazione generale, in particolare nella prossima generazione, sia sul rischio del cambiamento climatico, sia anche sul loro ruolo nel trovare soluzioni – come elettori, come consumatori e come individui nel proprio comportamento. Questo è anche un compito chiave per gli scienziati: lavorare insieme ai giovani, ai giornalisti, agli artisti, ai responsabili politici, alle aziende, alle autorità locali, ecc. Dobbiamo fare meglio nel comunicare chiaramente i rischi e nel dare potere alle soluzioni». 

Ricercatori e scienziati internazionali in ambito ambientale e del cambiamento climatico in atto, del calibro di Irene e Maarten, si arrovellano le menti nel controbilanciare scientificamente il piano inclinato dalle scellerate pseudo-decisioni dei capi di stato e di governo, come quelle, in tutta disarmante evidenza, insufficienti e palliative, seppur degne di minima significanza, scaturite da summit sul climate changing di Glasgow. Nel tentativo di mettere di nuovo in bolla il parallasse del futuro vivere e sopravvivere sulla terra. Nel mentre, si susseguono le dichiarazioni di moderata ma strombazzata soddisfazione autocompiacente di chi era in Scozia per prendere decisioni ultimative, che come in un sequel televisivo o cinematografico rimandano all’episodio successivo annunciandone l’epilogo. E fuori dal palazzo, per le strade del mondo imperversano gli inascoltati moniti di Greta Thunberg e di tante giovani figure che denunciano come il re sia ormai nudo e che occorra porre fine al bla bla time. Già, Greta. L’eponimo moderno della contestazione verde. La trasformazione della protesta della Beat Generation in quella della Bit Generation, social mediatica e poco incline a mediare. 

Greta, da molti potenti considerata una sorta di Cassandra del terzo millennio. Sì, stiamo parlando di quella Cassandra, figlia di Ecuba e Priamo Re di Troia, sacerdotessa del Tempio di Apollo, da cui ebbe in dono la facoltà della preveggenza. Una figura oracolare che, prevedendo e annunciando terribili sventure era invisa a molti, per lo più ai potenti. La stessa che aveva avvertito i concittadini troiani che nell’incavo del cavallo di legno, introdotto in città, si celavano i soldati greci, rimanendo inascoltata. Occorre rifletterci. Quella di Cassandra è anche una sindrome patologica dell’annuncio apocalittico che, per effetto dell’inferenza di un’altra sindrome, quella di Pigmalione, finisce spesso con l’autoavverarsi delle profezie. È sempre denotativa degli scenari di crisi culturale o di passaggi epocali dell’umanità. Annunciare la catastrofe, spesso più che prevenirla, la rende ineluttabile. Un problema che investe le dinamiche della comunicazione e dell’organizzazione reticolare dell’odierno villaggio globale. La frustrazione per l’incapacità di agire con efficace tempestività ha bisogno di una rappresentazione, di una liturgia simbolica, divergente ed etero riferita, rispetto ai decisori (non decisori), responsabili (non responsabili). Così che i media premiando infinitamente l’icona di Greta finiscono per decretarne la rimozione paranoica della sua funzione simbolica. Con l’acuirsi dei disastri ambientali, frutto di un comportamento noncurante estremo, la razza umana intera perde la capacità di esperire un’abilità cosmogonica di avvistamento di un orizzonte euforico. Innesco di una conseguente psicodemia, fattori di primaria inibizione della resilienza. La previsione del comune destino e degli scenari a tendere sembra essere, ogni giorno di più, l’obiettivo primario della scienza e della tecnologia. Previsione e prevenzione vanno a sovrapporsi. Va indagata la possibilità che la prevenzione possa anche deragliare nel business della prevenzione. Si prevedono gli scenari sociali, le catastrofi ambientali, gli indici delle borse, l’audience e i trend di consumo, le elezioni (con gli exit poll), l’orientamento scolastico e professionale (test attitudinali), le probabilità di longevità (esame Dna). In tutto questo comunque, bisogna ammetterlo, vi è la certa e apprezzabile avventura umana evolutiva della scienza. Le abilità prognostiche e predittive sono qualcosa di esaltante e funzionale al genere umano. Posto che non collidano contro l’iceberg visionario, immaginativo del mondo interiore. Il paradosso della resilienza alla catastrofe è quello che se non ridiamo al mondo una weltanschauung non saremo poi in grado di attivare i sensori razionali e scientifici della coscienza e della consapevolezza umana. Un cammino tortuoso dove le cose visibili richiedono un substrato limbico reggente invisibile e misterico, sapienziale, in una parola simbolico. Visibilia ex invisibilibus. La semantica della resilienza, che va a rappresentare un destino di nuovo euforico. E allora salvarsi finisce per dipendere da una macchina delle decisioni dotata di sette veri key buttons:

1. Apocalypse Now. Predizione disforica dei probabili rischi a breve;

2. New Euphoric Horizon. Visione di un orizzonte euforico possibile;

3. Cooperative Common Intelligence and Cure. Sostituzione diacronica della noncuranza con una concuranza collettiva (intelligenza collettiva cooperante) mosse N°1 e N° 4 del prof. Maarten van Aalst;

4. Decision Support System. Supporto scientifico alle decisioni chiave;

5. Resilience Training Programme. Allenamento della resilienza. Ovvero educazione e rieducazione alla percezione del rischio, all’adattamento alle mutazioni ambientali (mosse N° 2 e N° 5 del prof. Maarten van Aalst);

6. Fake Tracking. Determinare e riconoscere il vero e distinguerlo dal verosimile nella babele informativa (tema caro alla prof. Irene Manzella); 

7. Long instead of  Short Decisions. Generare idee e atti a lunga scadenza. →

L’occidente dietro l’angolo
(Editoriale)

Mauro Alvisi

Repetita iuvant recita un rinomato motto latino, quando si voglia significare che le cose che si vanno a ripetere portano vantaggi. Bene Bravi Bis è invece uno dei claim più utilizzati quando, deliziati da una esibizione artistica di livello, gli spettatori chiedono insistentemente un extension time dello spettacolo, chiedendo appunto il Bis. 

Non si può né si deve prescindere dal solo fatto che noi di MedAtlantic non avremmo mai lasciato la nostra platea di lettori a secco, dopo il primo sorprendente (anche per quelli come noi che lo hanno scritto e/o diretto) numero d’esordio, ricco di spunti, contributi e interviste esclusive di vero approfondimento culturale, storico e scientifico, economico, sociale e geopolitico. Quest’avventura editoriale è stata ed è una vera scommessa da far tremare i polsi. Individuare una comfort zone del pensiero e dell’osservazione di un mondo nuovo, come quello mediterraneo e atlantico, occuparla in modo indiscreto, cercando di porsi in stile del tutto innovativo nel taglio della narrazione e dell’inchiesta giornalistica internazionale e senza soverchie piaggerie e salamelecchi servizievoli per alcun tema affrontato o autorità intervistata, non era una sfida semplice da accettare. 

Be hungry Be foolish il monito ispirante del grande Steve Jobs, che ancora risuona nelle orecchie di tanti tra noi, tra voi, che amate gettare il cuore oltre l’ostacolo, che amate rischiare oltre il confine del vostro proprio orizzonte. C’era spazio per uno spazio medatlantico? Si sarebbe trovato ancora in giro un nugolo di mosche bianche interessate ad una lettura che superasse i titoli strillati dai quotidiani e ripresi poi nei social media? E soprattutto gli interpreti principali di questi due continenti liquidi ci avrebbero ritenuti degni, sin dal principio, di un loro spendersi? La risposta inconfutabile la abbiamo avuta in questi primi mesi di lavoro. Un crescendo rossiniano di plausi, di incoraggiamenti, di partecipazioni, feedback positivi, di apprezzate recensioni. 

Noi ci siamo divertiti divertendo, ovvero vertendo in senso diverso le vele della nostra navigazione tra mediterraneo e atlantico. Una navigazione in mare aperto e a tratti sotto costa. Puntando su rotte poco battute se non inesplorate del fare informazione e divulgare con un retrogusto dal sapor di scienza. La cartina di tornasole è stata il primo riuscito evento all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, lo scorso 30 novembre. Presentazione del mensile? Conferenza stampa? Tavola Rotonda Internazionale? Lezione accademica? Di più. Tutto questo insieme. Chi c’era, in aula magna o collegato dal mondo in tempo reale, può ben raccontarlo. Chi l’ha ripreso l’ha poi copiosamente narrato sulla stampa, nella TV pubblica e privata, in radio, sulla rete e sui social. Chi non c’era avrà futura occasione d’esserci, nel Tour che oggi ci porta in Roma, alla sede mediterranea della Temple University di Filadelfia e in futuro negli atenei di questo nuovo format: a Torino, Padova, Trieste. Nella capacità innata di ibridazione delle acque mediterranee e atlantiche va cercata la risposta a questo gradimento, non prevedibile. La risposta consiste nel farsi trasportare da queste onde, dal vibrare di nuove cose, nuove imprese e nuove generazioni che chiedono che da occidente partano segnali, scenari e sogni di cambiamento.Promettiamo impegno, passione, competenza, entusiasmo e onestà intellettuale. Vi chiediamo di leggerci, seguirci, stimolarci, diffonderci, aiutarci, criticarci e di sostenerci se vi andrà. Buon Numero 2. (mauro alvisi)

ursulav

La Regina d’Europa è una nonna felice

Di PINO NANO

La foto è tenerissima. La donna che tiene in braccio la nipotina appena nata è una delle donne più potenti del mondo, Ursula Von Der Leyen, attuale Presidente della Commissione Europea e a postare la foto sul suo profilo Instagram l’11 maggio scorso è stata proprio lei, la Presidente Von Der Leyen, per annunciare di essere diventata finalmente nonna.

«Such a magical moment – my first grandchild!», “Che momento magico, la mia prima nipotina”, è il regalo forse più speciale che uno dei suoi sette figli le abbia potuto fare in uno dei momenti forse più difficili del suo impegno pubblico e politico alla guida degli Stati Uniti d’Europa.

Ma non soddisfatta di questo la Presidente torna a parlare della nipotina appena arrivata in casa alla famosa Conferenza di Strasburgo sul “Futuro dell’Europa” e lo fa nella maniera più naturale e forse anche più disarmante di questo mondo: «Un mese fa – racconta al microfono – sono diventata nonna per la prima volta. La prima carezza alla mia nipotina è stato uno di quei momenti che rimettono tutto in prospettiva e ti ricordano che cosa è veramente importante nella vita».

Ma c’è ancora molto di più.

Nel corso di quel suo intervento ufficiale alla Conferenza di Strasburgo Ursula Von Der Leyen sottolinea come proprio la nascita della sua nipotina le abbia «insegnato una cosa che non dobbiamo mai dimenticare: siamo sempre abbastanza giovani per credere al mondo, e sempre abbastanza grandi per fare la differenza. Ecco quello che unisce tra loro le generazioni, a cui noi dobbiamo sempre pensare».

In Europa oggi, unica e sola donna al comando. Unica e vera grande protagonista politica al G20 di Roma. Unica e vera star della nuova Europa presente al summit dei Capi di Stato e di Governo firmato “Mario Draghi”. Lo è ancora di più oggi dopo l’addio definitivo alla politica attiva della Cancelliera tedesca Angela Merkel. 

Ma era stata lei stessa, Ursula Von der Leyen, sempre a Roma pochi mesi fa ad anticiparlo al W20, il grande summit dedicato alle donne: «Al prossimo vertice del G20 a Roma – aveva detto – potrei essere l’unica donna del gruppo». È stata, per fortuna smentita. «Non potrebbe esserci un promemoria migliore di quanto sia ancora lunga la strada verso la parità di genere. Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno della vostra esperienza. Abbiamo bisogno di Women 20 per aiutare a portare la voce delle donne al tavolo dei decisori».

In quell’occasione, a renderle gli onori di casa era stato lo stesso Mario Draghi, suo vecchio amico da sempre, e lo aveva fatto con i toni sobri a cui il premier Draghi ormai ci ha abituati: «Vorrei prima di tutto ringraziare la presidente Ursula Von der Leyen per essere qui con noi a Roma. La visita della Presidente segna l’approvazione da parte della Commissione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che era stato votato dal Parlamento a fine aprile. È una giornata di orgoglio per il nostro Paese».

Ma il premier Draghi va ancora molto oltre questo suo primo giudizio di merito, e al G20 delle donne, con la giusta solennità che quel momento istituzionale gli imponeva, fa capire quanto Ursula Von der Leyen sia stata fondamentale per il futuro dell’Italia.

«Abbiamo messo insieme – ripete il premier – un piano di riforme ambizioso, un piano di investimenti che punta a rendere il nostro paese – l’Italia – un Paese più giusto, più competitivo e più sostenibile nella sua crescita. Lo abbiamo fatto con il sostegno decisivo delle forze politiche, degli enti territoriali e delle parti sociali, a cui va il mio sentito ringraziamento. E con una costante proficua interlocuzione con la commissione, che ringrazio nella persona della Presidente Von der Leyen».

È abbastanza evidente e chiaro che l’Italia debba oggi un grazie molto speciale a questa donna tedesca che tanto si è spesa per la vita del nostro Paese, e soprattutto che non si è mai tirata indietro rispetto alle sollecitazioni pressanti e determinate che solo un premier di grande statura internazionale come Mario Draghi avrebbe mai potuto immaginare di poter fare.

«Il Piano italiano – che abbiamo chiamato “Italia Domani” – lo spiega benissimo Mario Draghi – risponde in pieno alle priorità stabilite dalla Commissione. Dà un impulso decisivo alla trasformazione digitale dell’Italia e alla sua transizione ecologica. Contribuisce a colmare i divari territoriali e a rafforzare la coesione sociale. Scommette in maniera convinta su donne e giovani, da cui dipende il rilancio del Paese. Lo conferma il giudizio molto positivo da parte della Commissione, arrivato nei tempi che auspicavamo».

E se tutto questo oggi è stato possibile, il merito spetta a questa donna leader, madre di sette figli, che anche nei momenti più difficili della pandemia non ha mai perso la speranza e la certezza di potere superare la crisi dell’intero sistema internazionale nel migliore dei modi.

Ursula Von der Leyen è una donna cocciuta, determinata, capace di leggere decine di dossier in una sola giornata, educata a lavorare anche 16 ore al giorno senza un attimo di sosta, a tratti coriacea e apparentemente indistruttibile, sostenitrice dichiarata e sfegatata dei diritti delle donne, icona da anni del femminismo europeo, donna che considera le donne «il vero cuore del mondo» e della storia contemporanea.

Questo è il suo slogan preferito, ci raccontano i suoi collaboratori più stretti: «Troppe di noi donne si sono sentite dire che dovevamo scegliere fra essere una mamma e avere una carriera. Come madre di 7 figli e Presidente della Commissione europea scommetto che faremo la differenza. Dobbiamo promuovere la creazione delle giuste condizioni per tutte le donne per riuscire ad avere un accesso equo nel mercato del lavoro e crescere i nostri bambini».

Il suo efficientismo, il suo attivismo politico, e soprattutto questa sua straordinaria capacità manageriale, che ogni giorno in Commissione Europea le permette di essere presente e mai distratta su decine di tavoli diversi, le ha permesso di portare a casa in tutti questi anni decine e decine di prestigiosissimi riconoscimenti internazionali, ma quello a cui forse lei tiene di più è il titolo di “Architetto Onorario Italiano” conferitole dal Consiglio Nazionale degli Architetti Italiani nel marzo di quest’anno e con una motivazione ufficiale che le rende merito fino in fondo per quanto lei si sia spesa per la rinascita dell’Europa: “Per le intuizioni, conoscenze e sensibilità dimostrate nei campi dell’architettura e del valore di bene comune attribuito all’ambiente costruito, per la visione politica che connette in maniera olistica i valori dell’ambiente e dell’architettura cui sono attribuiti valori simbolici, sociali ed economici, per la capacità di tradurre tutto questo in concrete azioni politiche con il lancio del programma New European Bauhaus”:

Donna protagonista in tutte le possibili chiavi di lettura.

Grazie al suo lavoro quotidiano e alla sua cocciutaggine – concordano gli analisti di politica Internazionale – l’Unione Europea si è assunta oggi l’impegno di colmare il gap dell’uguaglianza di genere del 50% entro il 2030.

«Per raggiungere questo obiettivo – spiega la Presidente della Commissione Europea – le donne hanno bisogno di supporto concreto, pagamenti di congedi parentali per le mamme e i papà, assistenza migliore all’infanzia, consolidare l’assistenza agli anziani, queste politiche richiedono un cambiamento culturale e risorse adeguate. In Europa finanziamo alcune di queste riforme attraverso il nostro piano di ripresa “Next generation Ue». Ora però è arrivato il momento di portare questi temi al G20 di Roma”.

Come dire? Non finisce qui.

62 anni compiuti l’8 ottobre scorso, Gertrude come secondo nome ma che nessuno naturalmente usa mai, Ursula Von der Leyen è figlia d’arte in tutti i sensi. Suo padre, Ernst Albrecht, era stato influente ministro-presidente della Bassa Sassonia. Da ragazza Ursula trascorre gran parte della sua infanzia in Belgio, dove frequenta la scuola europea di Bruxelles, impara così la lingua francese. Successivamente finisce al liceo scientifico di Lehrte, cittadina tedesca della Bassa Sassonia nella Regione di Hannover e una volta ottenuto il diploma si iscrive in archeologia. Evidentemente però non è il suo campo e la sua materia ideale, e l’anno successivo cambia facoltà, e si tuffa nello studi di economia. Prima a Gottinga e Münster, e poi alla London School of Economics and Political Science.

Carattere ribelle, estroverso, poliedrico, appassionata di musica rock, intelligenza viva, ragazza dai mille interessi, nel 1980 la giovane Ursula decide di mettere da parte almeno per il momento le sue conoscenze in economia per fare il medico. Incredibile ma vero. Si iscrive alla Scuola Superiore di Medicina di Hannover, e nel 1987 si laurea in medicina. In realtà tutta la sua vita, da adolescente e da studentessa universitaria, è altrettanto piena di sollecitazioni e di stimoli quanto lo sarà poi la sua vita da ministro e ancora oggi quella di Presidente della Commissione Europea.

Nel 1992 Ursula lascia la Germania per seguire suo marito che aveva ricevuto un incarico presso l’Università di Stanford, in California, per poi rientrare in Germania quattro anni più tardi. La sua storia politica in realtà incomincerà molto tardi, quando nel 2001 diventa, prima deputata del CDU al Landtag della Bassa Sassonia, l’Assemblea Legislativa monocamerale ad Hannover, e poi nel 2003 Ministra degli Affari Sociali, delle Donne, della Famiglia e della Salute della Bassa Sassonia.

Altera, sofisticata nei modi e nel portamento, austera come nessun’altra donna potrebbe esserlo, brava in tutti i sensi, seguita ammirata e raccontata splendidamente bene dalla stampa non solo tedesca, nel 2005 è proprio la cancelliera Angela Merkel che la vuole Ministro della Famiglia. Un ruolo non facile nella Germania di quegli anni, ma che Ursula Von der Leyen affronta con una determinazione fuori dal comune, ampliando in maniera esponenziale la rete degli asili e dando alle mamme tedesche la possibilità e il privilegio di lavorare con maggiore serenità, conciliando meglio il ruolo di madre e quello di lavoratrice.

La stampa tedesca la riscopre come “L’angelo della famiglia”, come tale amplifica la sua fama e la sua notorietà travalica i confini nazionali. La cancelliera Angela Merkel intuisce che è il momento giusto per cavalcare questa sua notorietà, e nel 2009 la riconferma Ministro della Famiglia. Ma appena l’anno successivo, la chiama poi alla guida del dicastero forse più delicato in quel momento del suo Governo. Dopo le dimissioni del ministro in carica Franz Joseph Jung, Ursula Von der Leyen diventa così autorevolissimo Ministro del Lavoro e degli Affari sociali, conquistando l’ammirazione e la stima non solo delle più potenti lobby industriali nazionali ma soprattutto l’apprezzamento del potentissimo movimento sindacale della Germania. Poi, nel 2013 è Ministro della Difesa.

In assoluto, sarà la prima donna politica della storia della Germania ad occupare quel dicastero, un’esperienza fondamentale per lei e per il suo futuro, tanto da essere poi chiamata nel 2019 a promuovere la politica del Governo tedesco sulle esportazioni di armi in Arabia Saudita e Turchia. Una sorta di lasciapassare internazionale per quelli che saranno i suoi incarchi futuri ai vertici dell’Unione Europea.

Per Ursula Von der Leyen e Angela Merkel è la sintesi comune di una lunga esperienza politica di altissimo profilo istituzionale, fatta di legami personali forti, impastata di passioni interessi obbiettivi e impegno quotidiano, dettagli e tasselli di un mosaico che farà di entrambe due icone della storia politica della Germania moderna. E oggi, che Angela Merkel ha lasciato per sempre la politica attiva, in Germania c’è già chi immagina che a raccogliere la sua indimenticabile eredità politica sarà proprio Ursula Von der Leyen che alla guida della Commissione Europea ha già dimostrato quanto pesi e quanto valga la sua esperienza personale e la sua determinazione.

– Ma cosa sta facendo l’Europa per l’Italia?

Netta e senza nessuna forma di reticenza politica, la risposta che Ursula Von der Leyen dà allo stesso Mario Draghi negli studi di Cinecittà, tempio del cinema italiano.

«È davvero un momento speciale per l’Ue e per l’Italia, la campagna vaccinale sta procedendo velocemente come anche la squadra azzurra e tutto il Paese, tutta la sua economia stanno riaprendo. Sono veramente felice di poter condividere questo momento con voi. E ti ringrazio Mario per avermi portato qui a Cinecittà, Federico Fellini, la Dolce vita. È stato detto che qui si parla di arte, di cultura di artisti che sono stati colpiti dalla pandemia; quindi, è bello essere qui e avere modo di vedere quello che farete con gli investimenti di Next Generation Eu».

La presidente della Commissione Europea va dritto al cuore del problema, e aggiunge: «Next generation Eu ha assemblato il pacchetto di ripresa più consistente di tutta la storia d’Europa, più del piano Marshall, 800 miliardi di euro sulla base dei prezzi correnti. La porzione dedicata all’Italia sarà di 191 mdl di euro. Voi avete chiamato il vostro piano Next Generation ‘Italia domani’, giusto, è stato confezionato qui in Italia, per gli italiani. È davvero un’opportunità generazionale per investire sui punti di forza dell’Italia e oggi sono qui per annunciarvi che avete l’appoggio totale della Commissione europea questo scaturisce da una eccellente cooperazione tra di noi, e ti ringrazio per questo, Mario, tra le nostre squadre da parte della Commissione europea».

Per l’Italia, per il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi, ma soprattutto per l’Europa che ci guarda, è il coronamento ufficiale e solenne di un impegno politico che vede oggi il nostro Paese in testa alle classifiche internazionali della ripresa economica.

Consiglio di leggerlo, perché è davvero indimenticabile, il discorso ufficiale che Ursula Von der Leyen tiene il giorno del suo insediamento ai vertici della Commissione Europea sullo “Stato dell’Unione”. 

Era esattamente il 2 luglio 2019.

La Presidente Von der Leyen esordisce così:

«I popoli d’Europa stanno ancora soffrendo. È un periodo di profonda inquietudine per milioni di persone che si preoccupano per la salute delle loro famiglie, per il futuro del loro lavoro o semplicemente di come arrivare a fine mese. La pandemia – e l’incertezza che la accompagna – non è finita e la ripresa è ancora all’inizio. Il nostro primo obiettivo è quindi risollevarci tutti insieme e assistere chi ha bisogno. E grazie alla nostra economia sociale di mercato, unica nel suo genere, l’Europa può farlo. È un’economia dal volto umano, che protegge dai grandi rischi della vita – le malattie, i rovesci di fortuna, la disoccupazione o la povertà; che garantisce stabilità e consente di assorbire meglio gli urti; che crea opportunità e prosperità promuovendo l’innovazione, la crescita e la concorrenza leale».

Ma ancora più forte è la passione e la determinazione con cui “Nonna Ursula” racconta dei milioni di giovani europei in attesa di un gesto di speranza da parte della politica militante.

«Questo mondo è il mondo in cui vogliamo vivere;

Dove siamo uniti nella diversità e nelle avversità;

In cui lavoriamo insieme per superare le nostre differenze e per sostenerci l’un l’altro in tempi difficili;

In cui costruiamo oggi società più sane, più forti e più rispettose nelle quali vorremmo che i nostri figli vivano domani;

Ma mentre siamo intenti a impartire ai nostri figli insegnamenti sulla vita, loro si danno da fare per insegnare a noi che cosa conta davvero nella vita;

L’ultimo anno ci ha dato la più convincente delle prove;

Potremmo parlare dei milioni di giovani che hanno chiesto cambiamenti per un pianeta migliore. O delle centinaia di migliaia di bellissimi arcobaleni della solidarietà che i nostri figli hanno appeso alle finestre delle nostre case in tutta Europa;

Ma c’è un’immagine che mi è rimasta impressa nella mente in questi ultimi sei difficili mesi, un’immagine che ci fa vedere il mondo attraverso gli occhi dei nostri figli;

È l’immagine di Carola e Vittoria, le due ragazze che giocano a tennis sui tetti di due palazzi diversi in Liguria;

Non è solo il coraggio e il talento delle ragazze che colpisce;

È la lezione che c’è dietro, che ci dice di non consentire agli ostacoli di averla vinta, di non restare attaccati alle convenzioni, di cogliere l’opportunità del momento;

Questo è ciò che Carola, Vittoria e tutti i giovani europei ci insegnano sulla vita, giorno dopo giorno.

Questo è il messaggio della prossima generazione di europei. Questa è NextGenerationEU».

uk

UK, scenari musicali. Il talento ha 23 anni

di LEONORA ALVISI

 Il 15 Ottobre di quest’anno, all’età di 23 anni, Joy Crookes ha realizzato il suo primo album Skin. Al momento è uno dei più promettenti talenti, qui nel Regno Unito, per il suo offrire qualcosa di nuovo sulla scena musicale.

Per quelli che ancora non la conoscono, lei è una giovane cantautrice di neo-soul R&B del Sud Est di Londra. Originaria di una famiglia di genitori nativi del Bangladesh e dell’Irlanda, Joy è cresciuta in un quartiere di Londra conosciuto come Elephant and Castle. Inizia a scrivere e comporre canzoni a soli 12 anni, stimolata e ispirata da un ambiente multiculturale e differente dall’usuale.

Quello che la rende così unica è quanto sia disarmantemente onesta nelle sue canzoni, parlando di amore, amicizia e della vita quotidiana, in un modo che risulta facile ad ognuno capire e relazionarsi. La sua voce parla come quella di un messia e comunica direttamente alla vostra anima. In tutti i suoi brani approccia un problema e, nello stesso tempo, trova anche una via per superarlo e affrancarsi dallo stesso, dando agli ascoltatori non solo speranza ma anche diventando, lei stessa, una sorta di guida per tutti loro. Solo due settimane dopo la sua uscita, il suo album Skin è già nella lista dei Top 5 del Regno Unito. Appena sotto ad artisti come Adele e i Beatles. Un grande risultato considerando anche che si tratta del suo album di debutto.

L’album affronta diversi argomenti e temi, che sono tutti prossimi al cuore sensibile dell’artista. Dal dolore dei cuori spezzati alla politica, dal suicidio all’emancipazione femminile. La maniera in cui Joy Crookes rafforza e incoraggia le donne, attraverso le sue canzoni, è tutt’altro che ordinario. Lo riesce a rendere personale, intimo. Racconta la sua storia, quello che ha vissuto sulla propria pelle, come il titolo del suo album Skin suggerisce.

A Sony Music Joy spiega il titolo del suo album così: «“La “pelle” è biologicamente e scientificamente uno degli organi più forti del tuo corpo. Ma socialmente ed esternamente, la tua pelle ed identità è qualcosa che può essere usata contro di te. Mi piace questa contrapposizione tra forte e debole, ed è qualcosa con cui mi cimento molto nell’album; per i testi il mio album è a tutti gli effetti una collezione di storie. Consiste in canzoni che ho scritto alla mera età tra i 15 e 21 anni. È un album sulla mia identità».

È  una naturale cantastorie, qualcosa che non vedevo da un po’ di tempo. È stata paragonata ad artisti del calibro di Amy Winehouse, per quanto profonde e ricche di sentimento sono le sue canzoni. Tutte le storie del suo album sono ambientate nella città dov’è cresciuta, Londra.

Celebra gli immigrati, per essere stata lei stessa ad aver esperito la realtà di crescere in un luogo cui non apparteneva del tutto, dove alle volte ci si può sentire degli estranei. Come ha affermato in un’intervista «Londra appartiene a tutti e a nessuno» e l’ha poi messo giù in versi nel suo pezzo musicale London Mine.

Hopeless,

Roaming around in the moment,

Streets that are tailored to no one,

But that’s what makes London mine”.

Un’altra delle sue canzoni londinesi è 19th Floor con versi come:

“Strip the life out of these streets,

It’s a daylight robbery

You’ll never take the London out of me”.

In una recente intervista alla BBC, Joy rivela anche come questa canzone si incentri sugli immigrati “Una canzone scritta sull’appartenenza ma che tocca così tante tematiche. È un pronunciarsi sugli immigrati, sulla gentrification (la progressiva trasformazione e integrazione sociale e urbana della metropoli ndr) ed è una metafora di tutte le cose che mia nonna e mia madre hanno dovuto attraversare per donarmi la vita che ho”. Crescere in una città vibrante e frenetica come Londra, può sfidarti e cambiarti in modo definitivo, poiché si è circondati da così tante culture, stimoli, idee, che si arriva a vedere il mondo più trasversalmente nel suo insieme. E Joy simboleggia tutto questo, con la sua intrepida attitudine, la sua voce sentimentale, può parlare ai cuori della gente. La Cantante sta attualmente partendo per il suo primo Tour in Gran Bretagna, a Novembre, e farà un piccolo European tour nel Febbraio 2022. Gli spettacoli di Londra hanno esaurito i biglietti, detto che Joy ha una larga platea di fan in zona, senza scordare che ora sta anche diventando popolare in Europa, trovandosi attualmente a Parigi per promuovere il suo album. Tu che stai leggendo, dovresti decisamente aspettarti di vedere di più di questa artista emergente e, se ti è possibile, prendere un biglietto del suo spettacolo. ®

digitale

Sentiment del dialogo digitale

di MAURO ALVISI

Il sentiment del dialogo digitale di Esperti, Studiosi e Media, monitorato negli ultimi 30 gg con una osservazione storica pregressa di 12 mesi, è andato progressivamente delineandosi sullo sfondo di uno scenario che ha spesso assunto ritmi sincopati e curve sinusoidali della temperatura psicolinguistica, fino a stabilizzarsi in coincidenza con gli ultimi quindici giorni dell’analisi effettuata del flusso digitale di informazioni, big data, dichiarazioni e posizioni ricavabili. Il libero dialogo della rete, dei blog, dei media on line, e dei social media, ha mostrato di preferire, allo scorrere del tempo, alcune forti tematiche geo-politiche, strategiche e culturali che oggi interrogano le istituzioni e amministrazioni governative e l’universo degli esperti, della comunità scientifica, mediatica e dell’informazione dei Paesi che si affacciano su questi due continenti liquidi del Mediterraneo e dell’Atlantico. Tra queste, in testa a tutte nei segnali forti e di grande impatto sul sentiment collettivo Mediterraneo e Atlantico Insieme, che marca a fuoco l’orientamento dell’intellighenzia internazionale nel considerare indivisibile il destino di questi due bacini. Tanto da decretare la nascita di una Nuova Identità Medatlantica che è simmetrica all’altra correlata parola chiave Mediterraneo Nuovo Spazio.  Un forte scossone, proviene poi dal giudizio critico sulla tenuta istituzionale di una Unione Europea in forte discussione della sua efficacia strategica, in termini di cooperazione allargata, decisamente evidenziata dal meme Europa Divisa Inconcludente, nel senso crescente della domanda di diversa concura della geo-politica europea, da parte del governo centrale e degli stati membri, fustigati dai media nazionali e internazionali per l’evidente litigiosità e divergenza, con il risultato d’un ingente danno reputazionale. L’ipogeo dell’immagine e della reputazione dell’Unione Europea è stato toccato. E’ l’ora di un pronto riscatto e recupero. I segnali forti poi reclamano la soluzione quasi urlata gnando all’Italia un ruolo determinante nel nuovo spazio d’azione.      

Lapidario è l’ultimatum lanciato dal dialogo digitale dell’expertise monitorato che arriva a pronunciare quasi l’anatema No MedAtlantico No Occidente. Si profila uno spazio di mediazione geostrategica interculturale, visto come fattore centrale di accelerazione e facilitazione di una politica mediterranea ed euro-atlantica che modifichi la percezione ultra-burocratica di una UE Payer Non Player. Il destino europeo passa nello stretto corridoio temporale di una mutazione del proprio ruolo, oggi più di controller dei budget in entrata-uscita che di una realpolitik del continente. Decisioni e manovre congiunte e sincronizzate, che siano prossime ai concetti di Interdipendenza Medatlantica, capace di dare sicuro impulso ad un Occidente Rinnovato. La comunità dirigente, pensante e creativa di queste sconfinate terre d’Occidente si aspetta di vedere la società della conoscenza quale baricentro dello sviluppo (Università Ricerca Medatlantica), rilanciando e promuovendo il Sud del Mediterraneo, quale nuovo vettore di enorme potenziale geo-strategico e culturale. Un Sud che deve pensare a riqualificare e sviluppare il proprio sistema, quella di uno stargate continentale MedAtlantico verso quattro continenti: l’Europa, l’Africa, l’America e l’Asia.

Segnali Emergenti

Tra i temi caldi emergenti, giudicati di forte inferenza dello scenario short term (18-36 mesi), primeggia la Minaccia Turca che costituisce un tris di serie minacce potenziali alla stabilità dell’area insieme a Migrazione Incontrollata MedAtlantico e Pericolo Costruzione Muri. La comunità degli esperti ritiene si debba porre, nell’immediato, maggiore attenzione al Pericolo Isolamento della Russia unitamente all’ esplicita richiesta di un maggiore presidio istituzionale nella evidente Crisi della Democrazia Liberale, che va a sposarsi con un’altra criticità emergente come quella di un Medioriente Border Line, una vera polveriera con molte micce da disinnescare. E allora, anche per questo, oltre alle vie diplomatiche si fa strada l’opzione irrinunciabile di una Difesa Integrata dell’Europa, associata ad una adeguata Politica di See Power.  Nel riaprirsi del corridoio di un Nuovo Spazio Euro Atlantico si ritiene centrale riconoscere il patrimonio connesso sovrannazionale di un futuro orizzonte MedAtlantico. Un futuro, tutto da progettare e costruire, mai prescindendo dal ruolo connettivo, quasi pedagogico e scardinante, del mondo dell’informazione, dei media.

Segnali Deboli (Epifenomeni)

Occorre porre molta attenzione al prodursi dei piccoli fili d’erba che sono gli epifenomeni del sentiment digitale, in quanto esprimono la maggior energia potenziale a tendere e dipingono scenari evolutivi molto credibili a medio termine. Vi è l’affacciarsi prepotente della Gestione Flussi Migratori, evidentemente ancora poco governata dalla politica e dalla diplomazia euro-mediterranea e transatlantica americana, che si rafforza nella richiesta di disinnescare potenziali Conflitti Etnici Imminenti nel rischioso scenario attuale che presenta un certo Vuoto Geopolitico Mediterraneo.          

I dialoganti digitali intercettati chiedono di rinforzare una visione diplomatica con il Mediterraneo Crocevia Strategico di ogni missione e progetto di respiro MedAtlantico. Una mutante e crescente consapevolezza MedAtlantica, individua nel lack of control delle spinose questioni mediterranee aperte, quali il Medioriente e la fragile stabilità politica del Nord Africa, le sorgenti dei veri potenziali black swan degli scenari di questo decennio. Tra i fattori di criticità a tendere, attenzionati dalla comunità degli esperti e dei media, si segnalano Espansione Cinese nel Mediterraneo, e la diffusa e logica preoccupazione per un Aumento dell’Insicurezza Globale. Se da un lato non può interrompersi il compito di Peace Keeper e Peace Promoter, dell’Occidente in prospettiva mondiale, che il sentiment digitale riconosce nella strategia inclusiva della Diplomazia di Papa Francesco, dall’altro occorrerà nel futuro non abbassare mai la guardia comune sulla minaccia di Nuovi Terrorismi Cooperanti. ®

(mauro alvisi)

decisionslabs

Scenari predittivi? c’è il Decisions Labs

Di MASSIMILIANO FERRARA  

 L’aumento della popolazione mondiale, la globalizzazione e le tecnologie stanno producendo effetti – qualche anno fa inimmaginabili – la cui scala non si era mai vista nella storia. Tutte le applicazioni dell’industria 4.0 generano un ingente volume di dati, conosciuti più comunemente, con il termine Big Data. Pertanto, le tecniche di data science e di analisi predittiva consentono di espandere qualità e quantità dei dati, generando un cambiamento fondamentale nel modo in cui le informazioni vengono prodotte e successivamente archiviate.

Il fine che queste tecniche si prefiggono di raggiungere è quello di pervenire a una migliore valutazione di quello che accadrà in futuro andando oltre, dunque, la semplice comprensione di cosa sia successo; in altri termini l’analisi predittiva mira ad utilizzare dati, algoritmi statistici e tecniche di Machine Learning per individuare la probabilità di risultati futuri basandosi su dati storici.

I modelli matematici si sono rilevati ottimi strumenti nell’analisi dell’andamento epidemico, ma sono necessari big data di qualità al fine di garantire una corretta previsione. Infatti, la modellizzazione restituisce output sotto forma di previsioni e in particolare, i modelli predittivi sfruttano risultati noti per sviluppare (o addestrare) un modello che può essere utilizzato per prevedere valori di dati diversi o nuovi.

Oggigiorno sentiamo parlare di Intelligenza Artificiale e delle sue innumerevoli applicazioni. Una tra tutte è la capacità di produrre modelli predittivi in grado di evidenziare la probabile evoluzione di un’epidemia individuando in anticipo i settori o i contesti territoriali che sono maggiormente suscettibili di sviluppare focolai. Per poter realizzare questa previsione è necessario far processare agli algoritmi di Machine Learning non solo dati (variabili) epidemiologici ma anche dati (variabili) esogeni (dati sulla mobilità, sulle modalità organizzative del lavoro nei diversi settori, sui trasporti ecc.).

L’Università Mediterranea di Reggio Calabria, e in particolare, il laboratorio scientifico Decisions Lab sono stati al centro di un network internazionale per una ricerca riguardante gli effetti della pandemia da Covid-19.

Il progetto di ricerca internazionale Dynamics of transmission and control of Covid-19 da noi promosso e avviato nel mese di settembre del 2020, sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, vede come obiettivo l’elaborazione di modelli matematici predittivi circa la diffusione del Covid-19 nei diversi Continenti e nuovi strumenti di diagnosi attraverso l’Intelligenza Artificiale e il Machine Learning. Tra i partners del progetto troviamo l’Università Bocconi, la National University of Malaysia, la Bahcesehir University (Turchia) con l’apporto di alcune aziende lombarde operanti nell’ambito dei Big Data.

Il gruppo di ricercatori composto in primis da studiosi autoctoni, sono riusciti ad individuare 34 ceppi diversificati del Virus. Questo importante risultato è stato ottenuto mediante l’implementazione di tre modelli matematici e utilizzando come dati di partenza quelli offerti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I contributi scientifici maturati, nel corso di questi mesi, hanno trovato collocazione editoriale su riviste ad alto impatto scientifico internazionale (tra le altre ricordiamo Scientific Report – Nature di cui dirò, in particolare, successivamente).

In letteratura, diversi studi ci hanno mostrato come le analisi di Big Data e dell’Intelligenza Artificiale hanno permesso di migliorare i dettagli delle scansioni del cervello umano e non solo; è sotto questa chiave di lettura che il nostro gruppo ha implementato la seconda linea di ricerca che ci vede coinvolti nel progetto Dynamics of transmission and control of Covid-19.

L’obiettivo che il nostro gruppo di ricerca composto da Bruno Pansera, Tiziana Ciano, Mariangela Gangemi, Stefania Merenda, Valentina Mallamaci e Pasquale Fotia è stato quello di modellizzare il fenomeno pandemico “COVID-19” su due direttrici di ricerca: la prima la modellizzazione per l’appunto; la seconda nuovi modelli di intelligenza artificiale e di machine learning per la predizione. Infatti, i tentativi di frenare la diffusione del COVID-19 introducendo rigide misure di quarantena hanno sortito effetti diversificati nei paesi in cui si è diffuso il virus: mentre il numero di nuovi casi è diminuito in Cina, Corea del Sud e Malesia, esso mostra una certa dinamica in Italia e in altri paesi Europei. Rifacendosi al classico modello SIR, l’obiettivo è stato l’elaborazione di un nuovo modello fuzzy di infezione e progressione della crescita partendo dal presupposto che tutti gli individui infetti vengono isolati dopo il periodo di incubazione in modo tale da non poter infettare altre persone. La progressione della malattia in questo modello fuzzy è determinata dal numero di riproduzione di base (il numero di individui appena infettati durante il periodo di incubazione), che è diverso rispetto a quello del modello SIR standard. Combinando un modello di trasmissione fuzzy con dati sui casi di COVID-19 a Wuhan e casi internazionali originati a Wuhan, è stato modellizzato come la trasmissione sia variata nel tempo tra luglio 2020 e gennaio 2021. Sulla base di queste stime, è stato calcolata quindi la probabilità che casi insorti possano generare focolai in altre aree. Per stimare le prime dinamiche della trasmissione nel resto del mondo, si è adattato un modello dinamico di trasmissione fuzzy a più set di dati disponibili relativi a casi conclamati. I set di dati a cui si riferiranno i ricercatori coinvolti, sono: numero giornaliero di nuovi casi esportati a livello internazionale (Italia, Turchia, Malesia e altri) e numero giornaliero di nuovi casi in Cina. Il modello in corso di definizione descrive i molteplici percorsi di trasmissione nella dinamica dell’infezione e sottolinea il ruolo del serbatoio ambientale nella trasmissione e diffusione di questa malattia. Il modello fuzzy proposto impiega anche velocità di trasmissione non costanti che cambiano con lo stato epidemiologico e le condizioni ambientali.

I modelli ad oggi pubblicati e presenti in letteratura non hanno tenuto conto del ruolo dell’ambiente nella trasmissione del COVID-19. Inoltre, tutti i modelli non hanno considerato l’importante ruolo dell’incertezza nella costruzione previsionale. I parametri definiti in questi modelli sono deterministici e finora non sono in grado di gestire il ruolo significativo di condizioni incerte nei dati reali. Come evidenziato dai fatti, la maggior parte delle persone infette non ha avuto alcun contatto con i mercati di Wuhan; il numero di infezioni mostra dinamiche eterogenee.

Il risultato raggiunto è stata l’elaborazione di un nuovo modello matematico per il COVID-19 che incorpora molteplici percorsi di trasmissione, inclusi i percorsi da ambiente a uomo e da uomo a uomo; introdurre un compartimento ambientale che rappresenti la concentrazione di virus nel bacino ambientale; proporre un’efficace tecnica numerica per ottenere una soluzione altamente accurata del nuovo modello adattabile anche ad altre situazioni pandemiche.

La seconda direttrice ha avuto come missione l’elaborazione di modelli matematici predittivi circa la diffusione del COVID-19 nei diversi Continenti e nuovi strumenti di diagnosi attraverso l’Intelligenza Artificiale e il Machine Learning, ha ottenuto un riconoscimento scientifico importante: è stato accettato per la pubblicazione un lavoro dalla prestigiosa rivista Nature-Scientific Reports.

La pubblicazione dal titolo: “GraphCovidNet: A Graph Neural Network based Model for Detecting COVID-19 from CT scans and X-Rays of Chest”, vede come Autori oltre che il Prof. Ferrara nella qualità di Coordinatore della Ricerca anche i Dr. Pritam Saha, Debadyuti Mukherjee, Pawan Kumar Singh, Ali Ahmadian e Ram Sarkar. La ricerca ha unito gli sforzi e le competenze dei menzionati ricercatori facenti parte delle Faculty dei seguenti Dipartimenti universitari:

Department of Electrical Engineering, Department of Computer Science and Engineering, Department of Information Technology, Jadavpur University, Kolkata India; Institute of IR 4.0, The National University of Malaysia, Selangor, Malaysia oltre che naturalmente l’ICRIOS – Università Bocconi e il Decisions LAB dell’Università Mediterranea grazie alla presenza del Prof. Massimiliano Ferrara. Di fatto, un network internazionale che unisce due Continenti attraverso una ricerca riguardante gli effetti di questa pandemia globale. Con questo studio si introduce una nuova rete isomorfa “a grafo. Il nuovo modello “GraphCovidNet” (questo il nome del brevetto che gli Autori hanno presentato negli USA) valuta la radiografia del torace sulla base di quattro set di dati standard di cui si dispone, tra cui: set di dati SARS-COV-2 Ct-Scan, set di dati COVID-CT, combinazione di set di dati Covid-radiografia del torace, immagini radiografiche del torace (Polmonite) dataset e CMSC-678-ML-Project dataset e, infine, in un confronto con queste basi di dati da cui si rileva il COVID-19 e soprattutto le sue tre varianti principali. Il modello mostra un’incredibile precisione del 99% per tutti i set di dati e la sua capacità di previsione diventa precisa al 100% per il problema della classificazione binaria del rilevamento delle scansioni COVID-19.

malta

Malta, la vera culla del Mediterraneo

di ANTONIETTA MALITO

Fabrizio Romano è il diciottesimo Ambasciatore d’Italia a Malta dal 1964, anno che segna, per questo Paese, la dichiarazione d’indipendenza dall’Inghilterra e l’ingresso nel Commonwealth. La sua nomina coincide con un periodo particolarmente difficile per il mondo intero, colpito dalla pandemia da Covid-19. Tuttavia, oggi, l’attività economica maltese sta pian piano riprendendo forza.

Entrata nell’Unione Europea il 1° maggio 2004, Malta ha una superficie di 315,6 chilometri quadrati. Paese tra i meno estesi al mondo nonché Stato membro più piccolo dell’UE, dista appena 80 chilometri dalla Sicilia, 333 dalla Libia e 284 dalla Tunisia.

La sua posizione geografica ha attratto da sempre le più grandi civiltà mediterranee ed europee, tanto che nei secoli fu luogo d’incontro tra diversi popoli che qui hanno lasciato importanti tracce del loro passaggio. In particolare, durante la dominazione inglese, i suoi porti diventarono frenetici negli scambi e nelle attività economiche.

In questa terra straordinariamente bella, la contaminazione culturale è evidente ovunque: nell’architettura, nella pittura, fra i siti archeologici più preziosi al mondo, dichiarati Patrimonio mondiale dell’Unesco.

Per discutere del ruolo che oggi Malta riveste all’interno del Mediterraneo (Euro-Atlantico, ndr), volgendo anche lo sguardo all’Europa e al resto del mondo, abbiamo posto alcune domande all’ambasciatore Fabrizio Romano.

 – Ambasciatore, il Mediterraneo, culla di antiche civiltà e luogo di intense attività marittime commerciali, è sempre più al centro del confronto geopolitico e rivalità tra potenze. In questo scenario di grandi competizioni e interessi strategici, quale ruolo gioca l’Europa e quale l’America?

«Il Mediterraneo è in effetti un’area di rilevante valenza geopolitica, non è tuttavia il solo nelle dinamiche internazionali, soprattutto in questa fase. Ciò detto, è di chiara rilevanza per l’Italia, e per il continente europeo. Basti pensare alle conseguenze – solo per citare un esempio – degli sviluppi intercorsi nell’ultimo decennio in Libia, che hanno comportato l’affaccio sul Mediterraneo di attori particolarmente assertivi che, almeno negli ultimi decenni, non avevano manifestato aperti e diretti interessi in tale contesto. L’Italia e l’UE sono quindi chiamate a svolgere un ruolo più profilato proprio per queste ragioni».

– Quali stategie sarebbe opportuno che l’Unione Europea mettesse in atto per non perdere la sua leadership?

«L’UE sta rafforzando la propria politica di vicinato con la sponda sud, anche attraverso un rafforzamento delle relazioni politiche, economiche e commerciali con tutta una serie di Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, inteso – e questo è un punto rilevante – in senso “allargato”. È il caso di osservare che lo strumento NDICI (strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale, ndr) prevede allocazioni dedicate al vicinato sud per circa 12 miliardi di euro da ripartire su diverse priorità di cooperazione».

– Quali Paesi d’Oriente e d’Occidente ritiene giocheranno un ruolo determinante nel Mediterraneo nei prossimi anni e perché?

«Personalmente, fermo restando che uno dei compiti della diplomazia è quello di elaborare scenari sulla base di un’analisi del presente e del passato, eviterei di prospettare possibili evoluzioni future in un contesto complesso, volatile, imprevedibile come quello del Mediterraneo. Poco più di un decennio fa, per fare un esempio, pochi fra gli analisti potevano immaginare le dinamiche presenti. Si potrebbe osservare – è ovviamente una mia opinione – che gli attori attualmente attivi saranno quelli con i quali si dovrà continuare a interloquire».

– In che modo le ondate migratorie e le minacce terroristiche stanno incidendo sullo sviluppo economico e sociale dell’Occidente?

«Come ogni persona che segue la realtà delle relazioni internazionali può facilmente rendersi conto, tali temi costituiscono gli ordini del giorno dei lavori nei principali fori competenti. Si tratta infatti di fenomeni largamente attenzionati da Governi, analisti, e dagli stessi media del settore».

– In che modo Malta sta gestendo i flussi migratori e quali misure sta adottando per ridurre gli arrivi irregolari?

«Fermo restando che la politica di gestione degli stessi, per quanto di competenza maltese, è materia sovrana di Valletta, dal nostro punto di vista si assiste a una comprensibilmente significativa attenzione nei confronti di tali fenomeni, condivisa con quella italiana e alcuni Paesi europei rivieraschi. Vi è una comune consapevolezza che il tema vada prioritariamente affrontato nel quadro della normativa internazionale – consuetudinaria e pattizia – ed europea, e alla luce delle determinazioni delle Istituzioni dell’UE».

– Lei è nato in Toscana, terra che ha dato i natali al sommo poeta Dante Alighieri. In che modo sta promuovendo la cultura italiana a Malta e, tramite questa, nel Mediterraneo?

«E non solo a Dante. La lista dei toscani che da secoli fanno parlare dell’Italia nel mondo sarebbe molto lunga. Celebrazioni dantesche a parte, che peraltro sono state numerose qui a Malta, il nostro Istituto di Cultura ha finora contribuito in maniera eccellente alla diffusione della nostra qui apprezzatissima cultura e, anche nell’auspicio di un superamento dei limiti imposti della pandemia, continuerà a farlo con ancora maggiore impegno».

– Parliamo di promozione economica, in termini di scambi commerciali, accordi, partnership, investimenti. Quali sono le principali attività di cooperazione tra Italia e Malta e quali i settori trainanti e le ricadute sul Mare Nostrum?

«Con Malta, dove l’Italia è il primo partner, condividiamo un ventaglio di collaborazioni nel settore che tocca praticamente tutti i volets economici, commerciali e finanziari. Difficile elaborare una gerarchia, anche se va detto che attualmente i campi sui quali sembrano concentrarsi i maggiori interessi attengono all’agroalimentare, all’energetico, alla promozione degli investimenti di piccole e medie imprese,  con formule e soluzioni anche innovative,  e al turismo. Le ricadute di un incremento di tali già attive dinamiche attengono, com’è facile dedurre, a una crescente interazione delle nostre economie rafforzando la gestione comune delle dinamiche nell’area».

– Ha alle spalle una lunga carriera diplomatica, che l’ha portata a rappresentare l’Italia anche in Georgia e in Ucraina. C’è stato in quegli anni un evento storico-politico che l’ha coinvolta particolarmente e/o che le sembra ancora oggi abbia forti ricadute?

«Molti, più di uno. Cito soltanto la Rivoluzione delle Rose in Georgia e le Maidan in Ucraina, i cui sviluppi, specie di queste ultime, stanno continuando ad avere un vigoroso impatto sulle agende diplomatiche delle maggiori potenze internazionali».

– Suo padre è stato un addetto militare a Mosca. Lei, fra le numerose cariche che ha ricoperto, è stato anche Consigliere Diplomatico nel settore della Difesa occupandosi della formazione degli ufficiali italiani e stranieri dei Paesi amici e di geopolitica. È ancora attuale il detto latino Si vis pacem para bellum? O l’inclusione, il dialogo, la diplomazia, sono l’unica via percorribile per la pace tra i popoli?

«La mia opinione è che non si tratti di dinamiche scollegate».

Il Mediterraneo, dunque, pur mantenendo ancora oggi la rilevanza geopolitica che gli appartiene da sempre, rappresenta un contesto in cui è difficile fare previsioni sui possibili futuri scenari. La pandemia da coronavirus, la crisi economica che ne è derivata, i crescenti flussi migratori che quotidianamento attraversano il Mare Nostrum, la paura incombente del terrorismo non fanno che accentuare l’incertezza per il futuro.

A pochi giorni dalla sua nomina ad Ambasciatore d’Italia a Malta, Romano ha dichiarato di volersi impegnare – proseguendo la strada intrapresa dai suoi predecessori – “per fare dell’Ambasciata d’Italia un centro propulsivo del sistema Paese” nel contesto mediterraneo. ®

IL NOSTRO AMBASCIATORE

A MALTA, FABRIZIO ROMANO

Da gennaio 2021, Fabrizio Romano è il nuovo Ambasciatore italiano a Malta. Nato a Pisa il 6 gennaio 1959, è laureato in Giurisprudenza. La sua carriera diplomatica inizia nel 1987, presso l’Unità di Crisi del Ministero degli affari esteri. Nel 1992, a Mosca (Russia occidentale), è Primo Segretario dell’Ambasciata d’Italia, Federazione Russa. Nel 2000 è Primo Consigliere all’Ambasciata d’Italia a Berlino (Germania).

Seguono, nel 2003, la nomina di Ambasciatore d’Italia a Tbilisi (Georgia) e, quattro anni dopo, quella di Capo Ufficio per l’Iran e i Paesi della Penisola arabica alla Direzione Generale per i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Nel 2008 è Capo dell’Unità di Crisi della Farnesina e, dal 2012, è Ambasciatore d’Italia a Kiev (Ucraina). A Roma viene nominato Consigliere per gli Affari Internazionali al Ministero della Difesa presso il Casd (Centro Alti Studi per la Difesa). Destinatario del prestigioso Premio “Guido Carli 2011”, riservato alle eccellenze italiane, Romano è anche Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica.

Dal suo arrivo a Malta, il diplomatico e sua moglie, la musicista argentina Nancy Milesis, risiedono a Floriana, sede ufficiale dell’Ambasciata.

ricercaeuropeacalabria

La ricerca Europea parte dalla Calabria

Di GIUSEPPE NISTICÒ

 Lasfida alla Ricerca scientifica, per trovare rimedi contro malattie ancora incurabili o che rischiano – vedi il Covid – di provocare pandemie di lunga durata parte dal Sud d’Italia, da Lamezia Terme, in Calabria. Qui stanno sorgendo i laboratori del Renato Dulbecco Institute, un Centro di Ricerca all’avanguardia che punta a diventare in Europa, ma anche per il resto del mondo, un faro straordinario per la ricerca scientifica, che avrà un direttore scientifico di chiara fama, lo scienziato Roberto Crea, da 40 anni a San Francisco, il padre delle biotecnologie, che sarà affiancato da due Premi Nobel (Aaron Ciechanover e Thomas Südhof) e altre “giganti” della scienza come sir Salvador Moncada di Londra e Napoleone Ferrara di San Diego (California) già premio Lasker,  per formare i futuri ricercatori e validare i risultati che verranno da Lamezia.

Il Renato Dulbecco Institute nasce a Lamezia sopra i resti dell’antica città di Terina, uno dei punti nodali della terra sulla quale nacque l’Italia, così chiamata dal mitico fondatore re Italo. Quella terra, ricca di vegetazione lussureggiante come l’Eden, il paradiso terrestre, fu descritta da autori famosi a cominciare da Omero nell’Odissea, poi Cassiodoro e altri autori in epoche successive. Di essa recentemente se ne sta occupando Salvatore Mongiardo, uno dei massimi esperti di Etica e Filosofia della Magna Graecia.

In geografia quella terra è un istmo, simile a una vallata che si estende dal Golfo di Lamezia lungo le sponde dei fiumi Amato  e  Corace, che scendono dai monti di Platania, di Tiriolo (la Terra dei Feaci dell’Odissea) e della Sila da un lato. Dall’altro dalle montagne di Borgia, Girifalco e delle Serre. Poi sfociano l’Amato nel Mar Tirreno e il Corace nel Mar Jonio nel Golfo di Squillace. È un istmo sempre verde per le piogge abbondanti che alimentano acque sorgive, le quali danno vita ad alberi, vegetali, erbe medicinali e una grande varietà di alberi da frutto.

Terina fu fondata o potenziata dagli abitanti di Crotone nel VI secolo a.C. durante il periodo della Magna Grecia. Difatti, i crotoniati avevano capito che essa rappresentava uno snodo fondamentale per le colonie greche, poiché da essa si collegavano velocemente via terra i due mari, ed era anche un approdo nel Golfo di Lamezia per le navi provenienti da Spagna, Gallia, Liguria, Sicilia, Sardegna e Corsica. Oggi finalmente, seguendo l’intuito del grande archeologo Paolo Orsi, è emersa, dopo i primi scavi finanziati con fondi europei, un’area archeologica che dimostra l’esistenza in passato a Terina di un importante insediamento urbano.

Forse non è una coincidenza se oggi, a distanza di millenni, sorge nello stesso luogo, tramite lo spirito di Pitagora, il Renato Dulbecco Institute presso la Fondazione Mediterranea Terina, un Istituto che sia degno erede delle scienze della Magna Grecia, dotato delle tecnologie più avanzate per il trattamento di malattie ancora incurabili. Nell’antica Grecia gli Argonauti, sotto la guida di Giasone, partirono sulla nave Argo alla ricerca del vello d’oro, esplorando terre ignote e ostili, per ritornare in una mattina dorata sulle spiagge della loro amata terra natia. Così oggi i calabresi, sparsi nel mondo alla ricerca di un pezzo di felicità e di benessere, dopo la tragica pandemia da Coronavirus spero ritorneranno nella nostra Calabria, coscienti che un pezzo di vello d’oro risiede ancora nel loro cuore e nei borghi da cui erano partiti tanti anni fa.

Il Renato Dulbecco Institute accoglierà a braccia aperte tanti di questi giovani sulla base dei loro meriti ed eviterà che tanti altri cervelli siano costretti alla “fuga” in terre lontane. Nel campo delle Biotecnologie, il Renato Dulbecco Institute rappresenterà una piattaforma di eccellenza nella produzione di anticorpi monoclonali (MABS) e di pronectine con la collaborazione dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, dell’Università della Calabria di Cosenza e di tanti altri scienziati provenienti da prestigiosi Istituti di ricerca internazionali.

Sarà così possibile raccogliere i migliori cervelli di giovani ricercatori calabresi, che ora prestano la loro attività fuori della Calabria in altre Regioni d’Italia o all’estero. Ciò è possibile, come dimostra la volontà di rientro di Roberto Crea, il quale, dopo l’invito della Presidente della Regione Jole Santelli a dirigere il “Renato Dulbecco Institute”, ha deciso di lasciare la California dopo quarant’anni di successi internazionali.

È evidente, inoltre, come tale iniziativa permetterà di attrarre in Calabria ricercatori di ogni Paese in una dimensione di collaborazione internazionale. La Calabria è una terra ricca di giovani talenti che tutto il mondo ci invidia, i quali rappresentano il primo ed essenziale elemento per la creazione di centri di eccellenza per la ricerca in tutti i campi. Il 15 Ottobre scorso, purtroppo, all’improvviso, è scomparsa la Presidente Santelli, lasciando una ondata di grande emozione e cordoglio non solo in tutti i calabresi, in Italia e all’estero, ma anche a livello delle massime istituzioni (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio e membri del Governo) nonchè di tutte le altre Regioni del nostro Paese.

Il progetto, a maggior ragione, andrà avanti per onorare la memoria della Presidente Santelli, che lo aveva fortemente voluto, tanto che sulla stampa, il Renato Dulbecco Institute era già stato denominato come “Progetto della Presidente della Regione Calabria”. Pertanto, non sarà difficile, con l’aiuto dei responsabili del Governo Regionale, in particolare oggi con il nuovo giovane presidente della Regione Roberto Occhiuto provenienti in parte dall’Unione Europea e in parte dal Governo e da altri Enti pubblici e privati, per realizzare il Renato Dulbecco Institute in Calabria. Lo scopo fondamentale del Renato Dulbecco Institute sarà la produzione di MABS e di  pronectine, molecole queste di minori dimensioni, più potenti e più tollerate dei classici MABS per il trattamento di malattie ancora incurabili come il cancro, la malattia di Alzheimer e altre malattie neurodegenerative, malattie orfane e polmoniti da coronavirus. Più in particolare, il “Renato Dulbecco Institute” sarà articolato in due Centri:

•il primo sarà denominato “MABS & Pronectins platform”, una piattaforma per la produzione di anticorpi monoclonali e pronectine in cui si svilupperanno con tecniche d’ingegneria genetica CAR-T e CAR-NK cells.

• un secondo Centro sarà denominato Pharm-Toxicol platform che si occuperà dello studio farmacodinamico, farmacocinetico e tossicologico dei prodotti biotecnologici a base di pronectine; inoltre, saranno studiati gli aspetti tossicologici ambientali e sarà valutata la qualità e la sicurezza dei prodotti agro-alimentari (food safety) cui sarà conferito un marchio di qualità della Regione.

La piattaforma per la produzione di anticorpi monoclonali e pronectine sarà diretta dal Dr. Roberto Crea, considerato uno dei padri delle biotecnologie nel mondo, avendo scoperto, verso la fine degli anni ’70 – inizi anni ’80 presso la Genentech di San Francisco, l’insulina umana ricombinante per il trattamento del diabete e altri prodotti biotecnologici d’importanza fondamentale nella terapia di numerose malattie. Roberto Crea si avvarrà in campo oncologico dell’alta competenza scientifica degli oncologi dell’Università di Magna Graecia di Catanzaro e cioè il prof. Pierfrancesco Tassone e il prof. Pier Sandro Tagliaferri, scienziati molto apprezzati a livello internazionale e di altri esperti della Università della Calabria negli altri settori.

La Piattaforma Pharm-Toxicol sarà realizzata con la supervisione del Prof. Sir Salvador Moncada, dell’University College di Londra, da qualificati docenti dell’Università Magna Graecia, dell’Università della Calabria, nonché dell’Università di Roma Tor Vergata.

Nell’insieme il Renato Dulbecco Institute consentirà da un lato di creare sinergie nel sostegno e nel concorso al progetto della Calabria con altre Istituzioni Regionali, Enti e Imprese di privati, sia nazionali che internazionali, e dall’altro di sviluppare effetti indiretti come quello di potenziare i rapporti fra la ricerca di base e quella collegata con attività produttive di tipo farmaceutico e biotecnologico con indotti economici di rilievo. In conclusione, esistono le basi scientifiche solide, il patrimonio umano e le relazioni internazionali per realizzare con l’Università Magna Graecia di Catanzaro e quella della Calabria il Renato Dulbecco Institute, localizzato in una posizione centrale rispetto alle due Università. La vera ricchezza dell’Istituto Renato Dulbecco è rappresentata dalla proprietà dei brevetti, condivisi con la Protelica Inc di San Francisco, per la sintesi di prodotti originali come le pronectine, che negli Usa sono già considerate the next generation treatment delle malattie da coronavirus e varianti. Di grande significato è la sensibilità e l’interesse del presidente Occhiuto nell’incontrare sia il prof. Roberto Crea sia il Premio Nobel Aaron Ciechanover per discutere sulle prospettive strategiche per il Meridione del RDI che si sicuramente contribuirà al rilancio economico, scientifico e sociale della Calabria. ®

IL COMITATO SCIENTIFICO: UN POOL DI GRANDI ECCELLENZE

Aaron Ciechanover (Nobel Laureate, Tel Aviv, Israele)

Thomas Südhof (Nobel Laureate, Stanford University, USA)

Sir Salvador Moncada (Direttore Cancer Institute, Manchester UK)

Napoleone Ferrara (Distinguished professor U.C. San Diego La Jolla, California)

Antonino Cattaneo (Presidente, Rita Levi Montalcini Institute)

Paolo Chiesi (Direttore Scientifico Chiesi Farmaceutici, Parma)

Francesco Cognetti (Ord. di Farmacologia, Università La Sapienza)

Franco De Lorenzo (Già Ministro della Sanità e Prof. Ord. di Biochimica Molecolare, Università di Napoli)

GiovanBattista De Sarro (Rettore Università Magna Graecia, CZ)

Enrico Garaci (Rettore dell’Università San Raffaele, Roma)

Silvio Garattini (Presidente, Mario Negri Institute, Milano)

Eugenio Gaudio (Presidente Fondazione Università La Sapienza) 

Stefano Gullà (Massachussets Institute Technology, Boston, )

Giuseppe Ippolito (Direttore Scientifico, Ospedale Spallanzani, Roma)

Vincenzo Libri (Direttore Farm. Clinica University College, London)

Nello Martini (Presidente Fondazione Ricerca e Salute, Roma)

Giuseppe Novelli (Prof. Ord. Genetica Medica, Università di Roma Tor Vergata)

Marisa Papaluca (Già Dirigente di DP Innovazione, EMA, London-Amsterdam)

Mauro Piacentini (Prof. Ord. Università di Roma Tor Vergata)

Michael Pirozynski (Prof & Director Pharmacology Institute, University of Warsaw, Poland)

Andrea Riposati (Amm. Delegato Gruppo Dante Labs l’Aquila)

Franco Romeo (Direttore di Cardiologia, Policlinico Tor Vergata, Roma)

Franco Rossi (già Rettore dell’Università di Napoli)

Thomas Salmonson (Former Chairman CHMP, EMA, London-Amsterdam)

Franco Salvatore (già Presidente dell’Istituto CEINGE ed Emerito Università di Napoli)

Giancarlo Susinno (Emerito dell’Università della Calabria)

Stefano Vella (prof. Virologia, Università Cattolica, Roma)

Wenyu Zhang (Dir. Scientifico Sinobioway, Xiamen, Cina)

lapovertaameriche

La povertà Atlantica delle due Americhe

di ROBERTO CARDACI – Nel variegato scacchiere dei Paesi che nei territori delle tre Americhe si affacciano sull’Oceano Atlantico, le economie sia di quelli industrializzati – in particolare nell’America Settentrionale – che di quelli che basano la propria economia sul petrolio o vivono di agricoltura o turismo – tendenzialmente concentrati nell’America Centrale e del Sud – la crisi del 2008, vero annus horribilis, protratta negli anni successivi, ha generato effetti di ricaduta destruenti sui diversi settori dell’economia reale, aggravando, soprattutto nei Paesi dell’America Latina, situazioni già pregresse di fragilità delle economie locali.

Le difficoltà economiche in cui i Paesi versavano nel periodo considerato si sono poi aggravate con la pandemia da Covid-19, la cui gestione per combattere il virus ed evitare i contagi mediante periodi più o meno lunghi di lockdown ha generato ulteriori crisi nelle economie locali, un ulteriore incremento del numero dei poveri e l’ampliarsi in termini numerici e negli aspetti qualitativi delle disuguaglianze economiche e sociali.

L’effetto di ricaduta più vistoso e destruente sulla vita sociale degli abitanti di tutti i Paesi del continente americano bagnati dall’Atlantico è stato non solo l’incremento della povertà che, seppure con caratteristiche diversificate, ha interessato gli abitanti di tutte le nazioni, con l’aumento del numero di cittadini poveri, ma anche l’aggravarsi delle disuguaglianze tra i ceti sociali, alcuni dei quali mai in precedenza interessati dal fenomeno della povertà.

La diversificazione della condizione di povertà è ovviamente legata all’andamento negativo dei settori produttivi delle economie e alle politiche di welfare inadeguate messe in atto durante il periodo precedente la pandemia nei Paesi dai rispettivi governi, anch’essi con caratteristiche diverse e peculiari rispetto ai modelli di sistema politico.

L’America Settentrionale

Secondo il Rapporto sulla Povertà pubblicato nel mese di giugno del 2021 dalla Commissione per lo Sviluppo Umano della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, allo stato attuale nel paese 38.100.000  cittadini vivono attualmente in povertà.

Di questi, 11.600.000 sono bambini, il che significa che un minore su sei vive in povertà e, qualora vivesse in una famiglia di quattro persone con reddito annuale inferiore a 25.701 dollari, è considerato sotto la soglia di povertà.

Il tema della consistenza del reddito aiuta a capire la dimensione qualitativa della povertà e le caratteristiche della diseguaglianza negli States: il Rapporto mette in luce come le disparità di reddito e la povertà, già molto consistenti prima della pandemia, hanno avuto un ulteriore incremento, con l’insorgere di nuove forme di fragilità economica tra i nuclei famigliari statunitensi, interessando soprattutto le famiglie di colore.

La fragilità economica, le difficolta delle famiglie statunitensi si spiegano anche con un dato significativo inerente le retribuzioni dei lavoratori: il salario minimo attuale per chi lavora è inferiore ai 10 dollari all’ora e non permette di fatto alle famiglie americane che vivono in condizioni di difficoltà di sostenere col proprio reddito un affitto per un alloggio dignitoso a fronte di canoni di locazione che periodicamente aumentano, mentre, allo stesso tempo, i salari minimi non vengono incrementati.

La situazione dei nuclei famigliari peggiora ulteriormente se al problema degli affitti non consoni ai redditi si aggiunge anche la disabilità di un membro della famiglia, evento che comporta l’obbligo di fronteggiare ulteriori spese sanitarie per le cure necessarie alla persona, non potendo contare che su scarsi sostegni pubblici, date le politiche sanitarie e assistenziali prevalentemente di carattere privatistico vigenti pervasivamente negli USA.

Povertà e disuguaglianze interessano anche il Canada: nel 2013 il 10% più ricco della popolazione deteneva un patrimonio 12 volte maggiore del 10% più povero.

Due esempi verificatisi nei decenni passati in due Stati del Paese sono significativi della povertà e disuguaglianza.

Infatti, per quanto riguarda la povertà, uno studio condotto nel 2018 da Citizens for Public Justice evidenziava come nello Stato di Manitoba tre cittadini su dieci vivevano in una condizione di povertà.

Inoltre, per quanto concerne la disuguaglianza, nel British Columbia, in merito alle disuguaglianze, mentre nel 2013 569 cittadini moto abbienti acquistavano  automobili Porsche (i cui prezzi da listino variano da un minimo di 54.000,00 a 1.000.000,00 di dollari) con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente e gli acquisti di Jaguar crescevano dell’80%, di Land Rover del 24% e di Audi del 12%, nello stesso periodo si perdevano oltre 1400 posti di lavoro, cosicché i disoccupati toccavano il record di 157.500 e la povertà infantile arrivava al 18,6% (153.000 bambini, uno su cinque della popolazione infantile).

America Latina

Riguardo all’America Latina, il Rapporto del 2018 della FAO sull’alimentazione e l’agricoltura denunciava l’incremento della povertà rurale nei Paesi che ne fanno parte: in una condizione peggiorata per la prima volta negli ultimi dieci anni, 59.000.000 di abitanti, secondo le analisi del Rapporto, non potevano soddisfare le esigenze di mantenimento primario.

Le disuguaglianze avevano una loro diversificazione a seconda che gli abitanti vivessero nelle città o nelle zone rurali: infatti, mentre solo il 18% della popolazione dell’America Latina vive in campagna, è tra chi abita questa realtà territoriale che si annoverano il 29% di tutti i poveri e il 41% dei poveri estremi.

L’incremento della povertà rurale è stato il catalizzatore della migrazione delle popolazioni verso il Messico, paese di transito per poi raggiungere gli Stati Uniti: sempre secondo la FAO, Il 76% dei migranti dell’Honduras, il 70% di El Salvador e il 61% del Guatemala proviene da comunità rurali.

In Brasile, secondo i dati della Banca mondiale, nell’anno 2016, in concomitanza con le Olimpiadi, il 4,9 %dei 210 milioni di abitanti viveva con meno di 1,90 dollari al giorno: circa dieci milioni di persone non potevano permettersi niente, nemmeno le risorse essenziali come il cibo necessario per sopravvivere.

In Argentina, nel 2019, in base ai dati pubblicati dall’Istituto Nazionale di Statistica, la povertà aveva raggiunto livelli record con 15.000.000 di poveri – 35,4% degli abitanti, 8,1 punti percentuali in più rispetto al 2018, con il 25,4% di famiglie che non arrivava a fine mese – ridotti all’indigenza in quanto non potevano acquistare gli alimenti del paniere-base necessari al sostentamento. Dati dell’Istituto Nazionale di Statistica segnalano inoltre che oltre il 50% dei minori vive sotto la soglia di povertà e che circa l’8% della popolazione si trova in condizioni di povertà estrema. Poiché i dati si riferivano al primo semestre, si stimava che alla fine dell’anno il 37% degli abitanti sarebbe vissuto sotto la soglia di povertà.

Il Paese che presenta il più alto grado di disuguaglianza è il Cile: in base ai dati forniti dalla Comisión Ecónomica Para America Latina y el Caribe (Cepal) si rileva che un decimo della ricchezza del Cile è controllato da solo 550 famiglie, mentre più di metà dei nuclei famigliari cileni ha un reddito annuo inferiore ai 5.000,00 dollari, mentre il 10% più ricco denuncia un reddito pari a 760 mila dollari.

Un elemento significativo del grado di disuguaglianza tra i cittadini cileni è rappresentato anche dal salario: infatti, considerando i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica, mentre lo stipendio minimo stabilito per legge è di 301mila pesos cileni (370 euro), metà dei lavoratori cileni percepisce uno stipendio inferiore ai 400 mila pesos (490 euro).

Pandemia e povertà

Il quadro di povertà e disuguaglianze nelle Americhe fin qui delineato ha subito ulteriori, massicci peggioramenti di entrambi i fenomeni a causa della pandemia da Covid-19 e degli effetti di ricaduta che la gestione della situazione sanitaria ha prodotto sull’economia e, di conseguenza, nella vita sociale dei cittadini.

Della situazione attuale degli Stati Uniti si è riferito in precedenza.

Rispetto all’America Centrale, per quanto, secondo i dati ufficiali della OMS, i casi di morbi-mortalità da Covid-19 nei sette Stati dell’istmo centroamericano (Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costarica, Panama e Belize) non siano i più elevati del pianeta, si prevede che le conseguenze economiche e sociali sono e saranno molto pesanti nei prossimi anni, col rischio di mettere in crisi la tenuta della già fragile democrazia in quei Paesi.

La Segreteria per l’Integrazione Economica Centroamericana (Sieca) prevedeva per il 2020 una contrazione del tasso di crescita per i Paesi dell’area dal 2,9 al 6,9%, contrazione data da diminuzione dell’attività economica dei principali partner commerciali, caduta dei prezzi delle materie prime, collasso del turismo, caduta degli investimenti stranieri e peggioramento della situazione finanziaria internazionale.

La pandemia ha anche incrementato la dimensione della povertà assoluta, relativa ed estrema: secondo la Cepal, gli abitanti sotto la linea della povertà sono passati dal 16% del 2019 al 19,1 nel 2020 in Costarica, dal 47,1 al 52,7 in Nicaragua e dal 35,7 al 38,9 in tutta l’area.

Lo stesso ente calcola dal 2019 al 2020 un aumento dal 4 al 5,3 in Costarica e dal 18 al 22,2 in Nicaragua, con una media dal 12,3 al 14,3% in tutta l’area.

Da rilevare come secondo l’ONG Azione contro la Fame la crisi economica conseguente alla pandemia inciderà sulla sicurezza alimentare di milioni di persone in America Latina.

Infatti, tenendo conto che negli ultimi anni precedenti la pandemia il numero degli abitanti denutriti era cresciuto di 9.000.000, le stime, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, indicano che entro il 2030 i livelli di fame potrebbero passare dal 7% all’8% della popolazione (67.000.000 di persone) a causa della pandemia e della concomitante presenza nell’area dell’America Centrale di siccità e migrazioni.

Riguardo al Brasile, sembra non ci siano ancora dati inerenti all’incremento della povertà, probabilmente difficili da reperire e sistematizzare nella situazione attuale del Paese, visto anche come il criticato governo Bolsonaro ha gestito la situazione sanitaria allo scoppio della pandemia che ha causato quasi 600.000 mila decessi legati al Covid su una popolazione di circa 212.000.000 di persone, verso il basso chi già si trovava in un fragile equilibrio.

Tuttavia, si può delineare un quadro della situazione in cui versa la popolazione brasiliana prendendo in considerazione due significativi indicatori “informali”.

Il primo riguarda l’incremento dei senza dimora: un recente censimento rileva che nella metropoli di San Paolo circa 25.000 donne e uomini vivono costantemente per strada, ma per le Associazioni di volontariato che se ne curano il numero reale è di oltre 40.000 donne e uomini.

L’Arsenale della Speranza, gestito nella metropoli paulista dal Servizio Missionari Giovani con l’aiuto del Comune, ospita fino a 1.200 persone alle quali garantisce un posto dove dormire, lavarsi e mangiare.

Secondo Simone Bernardi, uno dei Responsabili dell’Arsenale, con la ripresa delle attività economiche è emersa tra i poveri estremi una nuova tipologia di cittadini che prima della pandemia lavorava da precari o senza un contratto e che, comunque, non ha usufruito di alcun ammortizzatore sociale; poveri estremi che giungono anche da Rio de Janeiro, poiché la grande contrazione dell’attività turistica nella città carioca ha privato del lavoro centinaia di persone.

Altro indicatore è rappresentato dalla dolorosa constatazione dei vescovi brasiliani, espressa al termine dell’Assemblea plenaria virtuale della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile: “Il Brasile sperimenta l’aggravarsi di una grave crisi sanitaria, economica, etica, sociale e politica, intensificata dalla pandemia, che ci sfida, a partire dalla diseguaglianza strutturale radicata nella società brasiliana. Nonostante tutti soffrano la pandemia, le sue conseguenze sono più devastanti per la vita dei poveri e dei più fragili”.

In Argentina, secondo il Rapporto “Effetti della pandemia Covid-19 sulle dinamiche del benessere nell’Argentina urbana” pubblicato nel 2021 dall’Osservatorio del disagio sociale dell’Università cattolica argentina, gli abitanti poveri sono cresciuti dal 40,8% nel 2019 al 44,2% nel 2020, per un totale di 20,3 milioni di argentini, con il tasso di indigenza incrementatosi dall’8,4% al 9,8% nello stesso periodo.

Il Rapporto evidenzia anche che se si considera la condizione lavorativa degli abitanti si è verificato un aumento notevole della disoccupazione, passata dal 10,6% al 14,2%.

L’indigenza ha raggiunto livelli altissimi e insostenibili soprattutto nell’hinterland della capitale: “(L’indigenza) colpisce con maggiore intensità i segmenti sociali dello strato marginale inferiore e le abitazioni della periferia di Buenos Aires. In questi casi, gli indigenti sono aumentati in modo significativo dal 2013-2014, raggiungendo il 23,4% rispetto al 13,6% di partenza”.

I soggetti più penalizzati, sempre in base a quanto riferito dal Rapporto, sono i minori e gli adolescenti: “Nel terzo trimestre del 2020, nel gruppo di bambini e adolescenti da 0 a 17 anni la percentuale degli indigenti sale al 15,7%. Per quanto riguarda l’evoluzione nell’ultimo anno, i dati mostrano un maggiore aumento dell’indigenza nella popolazione di bambini, adolescenti e giovani dai 18 ai 29 anni, rispetto all’incremento registrato nella popolazione totale”.

L’analisi dell’Osservatorio mette in luce in modo marcato come la pandemia si è abbattuta su un contesto di povertà e disagio sociale già in forte incremento, in particolare nel biennio 2018-19, e le cifre sarebbero state molto più alte senza gli aiuti stanziati dallo Stato nell’ultimo anno, attraverso i programmi di Assegnazione universale per figlio (Auh) o il Reddito familiare d’emergenza: la assistenza sociale ha raggiunto la percentuale record del 55,4% della popolazione totale e il 79,9% della popolazione in situazione di povertà.

Quali interventi contro la povertà

È evidente che se si intende contrastare in maniera efficace l’attuale povertà per migliorare in modo radicale la condizione delle persone che la vivono, fornendo loro delle prospettive per un futuro in cui realizzare progetti di vita e aspettative, è necessario superare o abbandonare del tutto rimedi che non solo si sono rivelati inefficaci nel periodo precedente la pandemia – ormai da considerare come un vero e proprio discrimine epocale – ma che nella attuale emergenza porterebbero ad aggravare la situazione presente, col rischio di minare alle fondamenta la coesione sociale di pressoché tutti i Paesi delle  Americhe.

Vale la pena di precisare che lo stesso rischio corrono anche tutte le nazioni del pianeta,  che, seppure hanno reagito in maniera differenziata prima alla gestione della pandemia, poi agli effetti di ricaduta sull’economia e la condizione di vita sociale dei cittadini, si trovano tuttavia ad affrontare il presente ed il futuro con le stesse incognite e preoccupazioni.

Di conseguenza, la sfida che la crisi da pandemia ha lanciato a tutti i Paesi del mondo non può essere accettata e superata con interventi semplificatori e “tradizionali”, ma con analisi approfondite e critiche della situazione reale e con una capacità progettuale e di gestione degli interventi strutturati e messi in atto che sia di alto profilo, strategica, strutturale e destinata a durare nel tempo, tenendo conto del mutare delle situazioni.

Due sono le principali linee guida da tenere presente se le risposte vanno nella direzione, peraltro necessaria, di attuare scelte di alto profilo. La prima riguarda la necessità di individuare a livello economico linee di sviluppo che tengano conto delle risorse che possono essere utilizzate per rilanciare l’economia reale secondo una logica di sostenibilità e di tutela effettiva e reale dell’ambiente.

In questo senso, occorre valorizzare e sostenete in particolare le piccole e medie imprese e la cooperazione nazionale e internazionale, uscendo dalla logica che solo le multinazionali e le grandi imprese hanno la capacita di creare sviluppo e occupazione, quando esistono migliaia di ricerche, analisi e studi di settore che mettono in evidenza come sono state le piccole e medie imprese, anche a carattere artigianale, a costituire la spina dorsale delle economie nazionali.

Lo sviluppo economico è l’unica possibilità per creare occupazione per quei cittadini poveri che sono in grado di lavorare, e per i quali occorre predisporre una formazione o aggiornamento professionale che sia però strettamente legato alle esigenze delle imprese per favorire lo sviluppo delle economie territoriali.

Altro elemento riguarda le politiche di Welfare: per aiutare le fasce sociali fragili a uscire dalla condizione di povertà è necessario superare gli interventi a carattere prevalentemente assistenziale, e predisporre politiche che siano basate sul Welfare Generativo e di Comunità.

Un orientamento a favore dei poveri basato sul Welfare Generativo tiene conto non solo dei problemi di cui i fruitori sono portatori, ma soprattutto delle loro capacitazioni – secondo la definizione di Sen – cioè di tutte le competenze, conoscenze, esperienze di lavoro e di vita che posseggono, delle loro aspettative e della loro volontà di rimettersi in gioco, reintegrandoli o inserendoli ex novo nel mondo del lavoro per permetter loro di progettare un futuro migliore per se’ stessi, le loro famiglie e soprattutto i figli, che molto difficilmente avranno un futuro se le loro madri e i loro padri non hanno un presente.

Il Welfare di Comunità è necessario perché’ in ogni territorio mette in relazione  sinergica e collaborativa tutte le entità, pubbliche e private, che possono mettere  a disposizione risorse per sviluppare le economie locali, dando cosi opportunità di occupazione a quei poveri che, considerati soggetti attivi perché possiedono capacitazioni su cui poter sviluppare i loro progetti di vita, se possono lavorare, escano dalla loro condizione di povertà per essere cittadini attivi e in grado di contribuire al benessere collettivo.

Risulta del tutto evidente che il Welfare a carattere assistenziale dovrà prendersi cura di quei poveri che non potranno rientrare nel mondo del lavoro: ma anche per questi soggetti più fragili e deboli si può, considerando le loro capacità, desideri e aspettative, predisporre, oltre a un sostegno economico per la loro sussistenza,  dei progetti socio – culturali che li facciano sentire soggetti attivi e partecipi della vita sociale, evitando che si ritrovino nell’isolamento e nella solitudine sociale in cui le donne e gli uomini che vivono in condizioni di povertà troppo sovente si trovano confinati nel sistema sociale in cui vivono.

In ultima analisi, occorre operare a livello territoriale in modo sistemico, costruendo relazioni sinergiche tra i settori dell’economia e quelli delle istituzioni pubbliche, secondo il modello di rete che mai come ora appare essenziale per creare progetti di sviluppo e di contrasto alla povertà che siano strategici, strutturali e soprattutto proiettati nel futuro.

È evidente che nelle Americhe – e comunque a tutte le latitudini e longitudini della Terra – ogni paese ha le sue peculiarità riguardo alle risorse economiche, alle opportunità di sviluppo, le proprie politiche di Welfare che non possono non tenere conto delle risorse disponibili.

Se gli Stati Uniti con la Amministrazione Biden hanno messo a disposizione 1000 miliardi di dollari per gli investimenti, così da rilanciare l’economia, nessun altro Paese delle Americhe, salvo forse il Canada, potrebbe sostenete investimenti di questa portata nei diversi settori produttivi e dei servizi.

Tuttavia, altre strade si possono praticare.

Ad esempio, nell’America Centrale, la Cooperazione gestita da Associazioni svizzere per favorire lo sviluppo economico nell’aerea, sta operando per rafforzare le piccole imprese, vera e propria colonna portante dell’economia, incoraggiando le catene di valore aggiunto rurali legate a risorse territoriali: cacao, all’anacardo, all’allevamento sostenibile di bestiame e all’agriturismo.

Con un’organizzazione basata sui comitati rurali e incrementando la qualità dei prodotti e le vendite, i piccoli contadini e le piccole imprese rurali possono aumentare il proprio reddito.

Inoltre, operando con questi criteri, si sostiene il miglioramento delle condizioni – quadro economiche per i piccoli produttori, appoggiando ad esempio i Ministeri dei diversi Paesi centroamericani competenti nell’elaborare e applicare politiche di promozione nazionale.

Altro elemento fondamentale per lo sviluppo è la formazione professionale per i giovani, che incrementa le loro possibilità di lavoro nelle regioni rurali e nei quartieri poveri, dove, in quelli a elevata criminalità, si contiene la violenza e la criminalità.

Le soluzioni per combattere la povertà e ridurre le disuguaglianze ci sono e sono praticabili.

Ma ogni prospettiva di evoluzione per i poveri resta lettera morta se non vi sono decisioni coraggiose di carattere politico, soprattutto a livello nazionale, per modificare la rotta fin qui tenuta.

Già nel periodo pre – pandemia studiosi come Piketty e Stiglitz mettevano in risalto come tutte le intenzioni evolutive e le possibilità di uscire dalla povertà e superare le disuguaglianze più profonde e radicate si erano infrante contro la pressoché assoluta incapacità decisionale dei decisori politici.

Una carenza di capacità di analisi critica, progettazione, di fare sistema e di individuare linee di interventi strategici, strutturali e continuativi che oggi nessuna nazione si può più permettere se si vuole evitare di precipitare il mondo in una voragine dalla quale sarebbe impossibile risalire, se non per le élites economiche e di potere. ®

transizionale

L’idea di modernità è transnazionale

di MAURO ALVISI

Trattare congiuntamente di Mediterraneo e Atlantico assume aspetti che vanno bel al di là della geografia dei luoghi e della storiografia degli eventi, che hanno riguardato l’intricata ragnatela di rotte e porti che li hanno collegati. La stessa idea di modernità nasce tra la fine de XV secolo e l’inizio del XVII, intorno al declinarsi della compenetrazione tra il vecchio mondo e il nuovo mondo, al di qua e al di là delle colonne d’Ercole, nell’ibridazione sociale e culturale di uno spazio leggendario, mitologico, antropologico, geo-politico, macro e micro economico. Un intreccio intercontinentale proteiforme, capace di iscrivere nel suo insieme Asia, Europa, Africa e Americhe come in una grand route, da Oriente a Occidente, con l’ombellico del Mare Nostrum, il Mediterraneo, saldo al centro. Le maree di questi continenti liquidi si alternano senza tregua alcuna, miscellandosi l’una con l’altra, nel continuo divenire spazio-temporale del nostro mondo. Coste, spiagge, isole e abissi d’acque tempestose molto prima immaginate che solcate, nell’immaginario spirituale, sacro ed epico collettivo di popoli, quindi icone magiche della memoria, della narrazione ancestrale dell’umanità. Un Mediterraneo da sempre poliedrico, palcoscenico di violenti scontri tra avverse civiltà come di proficui scambi commerciali e culturali tra le sue diverse etnie, una sincresi storica tra integrazione e alienazione, domestico e forestiero, incontro e scontro del vissuto collettivo. Un Atlantico complesso, temuto, sconfinata frontiera multilaterale, scommessa sempre incerta sulla scoperta ardita. La stessa globalizzazione di cui spesso si parla, anche a sproposito, ha il suo primo embrionale vagito in questi mari, intorno alla fine del XVII secolo, quando le pance della sovversione nel mondo divennero ad un tratto incontinenti. Le prime desuete connessioni ideali e socio-politiche tra America ed Europa, Oceano Atlantico e Mare Mediterraneo, favorite dai radicali eventi rivoluzionari di quell’epoca, annunciarono come trombe dell’età moderna, per la prima volta e con inusitata modalità, le prime interconnessioni globali. Mai scontate nel prodursi e negli esiti seguenti, mai simili l’una all’altra, asimmetriche, asincrone e diseguali ma in grado di ingaggiare, attrarre e influenzare, come oggi farebbero solo i social media, le diverse genti del mondo, le loro legate esistenze sociali, politiche, economiche, scientifiche, artistiche e culturali. Quello che con questa nuova rivista si annuncia come MedAtlantico, non è solo un vastissimo bacino geo-strategico, è il gioco da tavolo interpretativo, cognitivo di un universo marittimo delle antropologie culturali che lo fondano. Gli studi e i tanti contributi storiografici che tendiamo a solleticare e sollecitare ai tanti atenei e centri di ricerca che s’occupano di questi connessi mari, dei viaggi leggendari esplorativi sulla conquista dell’oceano Atlantico, ci aiuteranno a ricavare nel tempo, una visione prospettica comparata, focalizzandosi sulle unicità e le tante ibridazioni succedutesi nelle nazioni e nei popoli che son vissuti e ancora vivono in faccia al Mediterraneo, all’oceano Atlantico. Potremo intelleggere il moderno e il postmoderno di queste terre di mezzo del mondo, le dinamiche di relazione, le tensioni etniche, gli scambi commerciali, che disegnano il sistema complesso medatlantico con i suoi “commerci, guerre, migrazioni, istituzioni civili e religiose, produzioni culturali, manifestazioni artistiche, ibridazioni sociologiche e politiche, nazionalismi”. Tutti i fenomeni e i processi interculturali sono al centro del nostro monitoraggio periodico e ricorsivo. Eventi, come quelli attuali e futuri spesso segnati da incomprensioni, fobie e forme d’intolleranza radicale ma destinati ad un potenziale orizzonte euforico, fatto di un interesse collettivo, di vantaggi competitivi difendibili, fondati sull’incontrare l’altro. Su questo nuovo scacchiere medatlantico, su cui si articolano tutte le nuove storie e strategie di connessione reticolare dell’intelligenza collettiva cooperante si sono giocate le partite più avvincenti, epiche, avventurose e inimmaginabili della storia. Millenarie piste d’acqua e terra, da Oriente a Occidente, da Sud a Nord, solcate da popoli di diversa etnia, cultura, tradizione, religione che hanno scambiato beni e merci, conoscenze ed esperienze, incontrandosi e attivando il volano della storia. Sfidando persino gli antichi Dei del mare, i mostri marini, le insidie seduttive di sirene e sibille, le ostilità diffuse verso i naviganti e i nomadi delle terre straniere e il finis terrae, che precede l’oceano, il regno del nulla e del naufragio d’ogni certezza. L’unica vera barriera alla conoscenza è porsi barriere. E così passata Gibilterra ecco le rotte atlantiche, lungo le coste dell’Africa, alle Canarie e oltre, nel nuovo mondo. In testa a tutti, i Fenici o nausiklutoi come li battezzò Omero. Gente nata per costruir navi e navigare. Non trascurando che le rotte mediterranee e atlantiche erano battute sin dall’età del bronzo, che le flotte di Tiro, poi seguite dalla fenicia e potente Cartagine, conoscevano e praticavano rotte medatlantiche, duemila anni prima di Cristo. La città del dio Melqart e dei suoi re Hiram e Ittobal, che il filosofo e scrittore francese Paul Valery (figlio di madre genovese e padre della Corsica, quindi pienamente mediterraneo) dipinse come padroni del mare, della navigazione ardita, nell’animo dei quali incessantemente si agitano le acque dell’oceano. Dalla fusione dei saperi e dei sapori di queste ragnatele d’onde poi scaturiscono le prime tracce d’architetture urbane delle città, i codici della scrittura, la coltivazione di vigneti e il vino stesso, il vero lasciapassare sacro, il nettare divino che meticcia mediterraneo e atlantico, che celebra le vite delle loro genti, dalla nascita, alle nozze, al funereo dì. Così, dai primi leggendari viaggi verso la prima Eldorado Afro-Atlantica di Ophir provenendo dalla biblica Tarshish (che alcuni collocano in Spagna e altri in Sardegna), nel X secolo a.C. sì traguarda alle città puniche nel Marocco atlantico, o sull’ oceano. Come Gadir oggi Cadice, in Spagna o la monumentale Lixus, nord africa atlantica, o Mogador e la sua spiaggia di Essaouria sull’oceano, in asse con Marrakech, nell’entroterra. Qui i tanti santuari atlantici dedicati a Melqart risalgono alle scorribande della mitologia eroica troiana, di remotissime rotte e navigazioni mediterranee e oceaniche. Antecedenti di molto a quelle fenicie. Provenienti dall’Egeo e dall’oriente mediterraneo. Quindi quella fenicia è solo un tratto storico di una navigazione medatlantica molto più datata, di popoli autoctoni, mediterranei e atlantici, che dal principio dei tempi, con tutta probabilità, hanno unito Oriente e Occidente in una lunga autostrada del mare, a centinaia di corsie e di caselli d’uscita. E se questo spazio medatlantico che è stato, ab origine, il luogo fisico e metafisico dell’interculturalità globale, si candidasse in epoca postmoderna, post-capitalistica e post-industriale, a recitare ancora quel ruolo centripeto e centrifugo che il daemon vocativo della storia gli ha sempre riconosciuto?

Per rispondere a questo intrigante quesito, durante la corta stringa temporale che ha caratterizzato l’ultimo recente vissuto pandemico mondiale, si è cercato di monitorare l’intenso flusso di interazione e dialogo digitale, attivatosi sui principali media, di cui rimane sicura traccia digitale, sui social media (Facebook, Instagram, Twitter, Telegram, Youtube etc.) sul focus tematico psicolinguistico delle Key Words Mediterraneo e Atlantico, da parte della comunità scientifica, universitaria e dei centri studi, degli esperti economici e geo-politici,  della comunità creativa, di quella della comunicazione e dell’informazione, e degli operatori del commercio internazionale. MEDITA Hub, la piattaforma e laboratorio di ricerca scientifica che presiedo con l’ausilio del Decisions Lab dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria (di cui mi onora la membership accademica), analiticamente e con l’ausilio di strumenti di intelligenza artificiale, ha dedicato al tema un articolato monitoraggio diacronico, nell’intenzione di studiare gli scenari del sentiment collettivo che sono andati costituendosi, lungo i principali vettori dell’espressione psicolinguistica, semantica d’una opinione pubblica elettiva, verticalmente coinvolta.       

Si è andata così delinenando una metodologia di ascolto del dialogo digitale sotto il profilo del loro proprio “bagaglio psicolinguistico”. Questo ha consentito di fissare lungo l’asse temporale una definitiva “Concept Cloud”. Come si potrà facilmente osservare, nell’analisi riportata di seguito, lessico e concetti psicolinguistici, tematici, costruzione retorica del linguaggio riguardano il neologismo, che si è andato naturalmente creando di medatlantico . La “words and concepts cloud” osservata su di un bacino reticolare dell’infosfera digitale che riguarda ben quattro piattaforme continentali, racconta molto, se non tutto, del loro innovativo ed emergente approccio dialogico e della cifra complessiva della rispettiva comunicazione e informazione geo-politica. Il Key Concept Toolkit (Cruscotto Concettuale Strategico), le diverse modalità espressive del lessico psicolinguistico, ovvero il tono e l’intensità del proprio prodursi in dichiarazioni, studi, interviste, convegni, dibattiti, post e twitter, conferenze stampa, consente poi di confrontarle, paragonarle, fare “matching” con la mappa tematica concettuale del sentiment reale. Un cruscotto analitico che consente di osservare, da diverse angolature concettuali, come lavora questo nuovo paradigma geo-politico, cogliendone appieno segnali forti, segnali emergenti e segnali deboli che chiameremo epifenomeni. Ovvero l’epicentro energetico di scenari a breve-medio termine, capaci di grande potenziale trasformativo. Mai come in questo caso per capire gli eventi occorre aver avuto i piedi per terra e la “testa tra le nuvole”.