Tale Of Us

Afterlife, il viaggio di Tale of Us

di Leonora Alvisi

Tale Of Us è un duo di musica elettronica techno/ dance, che negli ultimi 10 anni è cresciuto in popolarità per i loro spettacoli unici e coinvolgenti. La loro musica offre qualcosa di nuovo nella scena techno, in quanto rompono i confini poetici ed emotivi, portando fantasia e stupore a più scene e livelli, di solito emisferi lontani. 

Provenienti dall’Italia, Carmine Conte, studente di giurisprudenza con una precedente formazione musicale da pianista, e Matteo Milleri, erede e figlio di un consulente aziendale ed economista di successo, hanno lasciato entrambi gli studi e deciso di studiare musica all’Istituto Sae di Milano, dove si sono incontrati nel 2008 e hanno formato l’ormai famoso duo “Tale Of Us”. Recentemente hanno pubblicato il Capitolo numero 5 del loro già noto progetto Afterlife: un’odissea attraverso il regno della coscienza. Si tratta di un progetto a cui il duo ha lavorato negli ultimi cinque  anni, che è stato lanciato per la prima volta a metà giugno del 2016 in Plaza Mayor de el Poble Espanyol di Barcellona. 

I produttori musicali affermano di aver creato inizialmente Afterlife (sia l’evento che la loro etichetta discografica), per avere più libertà musicale ed estetica. Nella loro etichetta figurano una serie di DJ di talento, come Marcel Dettman, Recondite, Mind Against e molti altri. 

Così come accade nell’Odissea di Omero, Afterlife mira a portare la folla in un viaggio, in un’altra dimensione della percezione. Al centro dei loro spettacoli c’è sempre la figura di un corpo umano capovolto e tutto sembra girare intorno ad esso (vedi foto sopra). Tutto è amplificato grazie a una produzione coinvolgente che accende i sensi. 

È possibile immaginare la mole di lavoro e di pensiero che c’è dietro ai loro spettacoli, poiché la musica si mescola perfettamente con la visione, offrendo al pubblico una completa esperienza sensoriale. Il duo ha descritto Afterlife come “una ribellione alla convenzione in una dimensione in cui la musica guida la rinascita”. Dalle linee di basso ipnotiche agli energici crescendo, la sfumatura di un’esperienza di immersione è lì per essere esplorata. 

“Tale Of Us” è la chiara rappresentazione di come la musica techno si muova di pari passo alla tecnologia, dando potere non solo al suono ma anche alle immagini. Siamo sull’orlo della tecnologia artificiale e si prospetta un futuro sempre più digitale. Ciò va a favore dei Dj, dato che così hanno modo di avere una maggiore creatività nel momento in cui portano la musica nella pista da ballo. 

In un’intervista, Matteo Milleri ha spiegato come le generazioni future vivranno e percepiranno l’arte e la musica. “Sono fermamente convinto – ha detto – che questo panorama digitale, in continua evoluzione, rappresenti un’opportunità per gli artisti di coltivare un’esperienza più connessa e coinvolgente, sia dal vivo che a casa. Questo vale per le interazioni sociali e solitarie”. 

Audio e immagini combinate insieme possono creare un’esperienza musicale e artistica digitale a 360 gradi in cui il pubblico è coinvolto con i diversi sensi, ed è trasportato non solo dal suono ma anche dagli effetti di luce e dalla grafica, trascendendo i limiti di una normale esperienza di DJ sulla pista da ballo. 

Un genio negli audiovisivi è sicuramente Richie Hawtin, noto per aver lanciato nel 2017 Close al Coachella. Questo progetto mirava ad avvicinare il pubblico al suo processo creativo di DJing, che è comunemente frainteso, coinvolgendo una troupe di telecamere posizionate attorno ai suoi giradischi e permettendo al pubblico una visione a 360 gradi. 

Il duo è ora in tournée ed è tornato dopo due anni nella suggestiva sede londinese conosciuta come Printworks, il 27 e il 28 novembre. Printworks è il luogo ideale per questo viaggio nell’ “ignoto” in quanto offre un’atmosfera suggestiva e drammatica, che aggiunge estetica allo spettacolo. Attualmente  sono in tournée negli Stati Uniti e saranno in Sud America a gennaio 2022, avendo già lì molti fan. 

Se sei abbastanza coraggioso da affrontare questo viaggio verso l’ignoto, rimani in allerta per le prossime date disponibili. →

Disabilità

Cultura della disabilità. Integrazione e coesione

di Vincenzo Zoccano

I

l punto nodale dell’integrazione sociale, economica e civile delle persone con disabilità, non è il come integrarle, ma il come non escludere chi è già parte della comunità, adottando ogni necessario ragionevole accomodamento, per rendere effettivi i loro diritti. Occorre pertanto avere una visione complessiva e trasversale dei temi della disabilità, per realizzare quel cambio di passo, non solo culturale, oggi non più rinviabile, che deve produrre un effettivo miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità e dei loro nuclei familiari, nelle sue componenti e problematiche generazionali, relazionali, socio assistenziali, previdenziali ed economiche. 

Occorre quindi agire per elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione, protezione e promozione sociale, favorendo la partecipazione, la non esclusione, il pieno sviluppo, l’autonomia e le pari opportunità delle persone con disabilità. 

Occorre agire per valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa della persona con disabilità.

Occorre agire, con una forte intesa tra gli Organi Costituzionali anche per rendere effettivi i dettami della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. 

Occorre prendere atto che il tema della disabilità non è un “tema a parte” rispetto alla politica di governo ma trattasi di “tema trasversale”, che deve essere parte integrante di tutte le azioni di Governance, in quanto concerne i diritti dei cittadini, nella consapevolezza che persona con disabilità talvolta si nasce, ma lo si può anche diventare per i casi della vita o per l’avanzare dell’età.

Occorre, come principale azione dell’agenda politica, armonizzare, riordinare e semplificare, anche innovandole, le disposizioni dell’ordinamento vigente in materia di disabilità, per rendere effettivi i diritti delle persone con disabilità e dei loro nuclei familiari, in un quadro di rinnovato patto di solidarietà civile.

Occorre rendere effettiva, promuovendola in un quadro di regole certe, la fondamentale e necessaria azione di ascolto delle persone con disabilità e dei loro nuclei familiari, attraverso il coinvolgimento fattivo di tutte le loro associazioni di rappresentanza, in attuazione dell’articolo 4, comma 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.

Questo è un primo nucleo di quella visione trasversale sui temi della disabilità, che deve necessariamente includere tutte le articolazioni degli Stati e deve essere per tanto, inquadrata in capo ad un dicastero, ben strutturato, dedicato con deleghe piene, con un forte mandato politico, specifiche e capaci di rendere effettivi ed efficaci i diritti delle persone con disabilità e dei loro nuclei familiari, per troppo tempo rimasti ai margini delle agende politiche.

In poche parole, 80 milioni di persone con disabilità in Europa, 1 miliardo di persone a livello mondiale, non dovranno mai più essere un costo ma un investimento.

Solo attraverso questo sostanziale cambio di paradigma giungeremo ad una concreta INCLUSIONE di questi cittadini fra i cittadini, cancellandone stigmi e presunte debolezze o fragilità, figlie di una cultura “antica”, non appartenente all’attuale momento storico.

Naturalmente, tutto ciò andrebbe necessariamente inquadrato in ottica di reciprocità tra gli Stati, non possono esistere discriminazioni fra cittadini residenti in un Paese rispetto ad un altro.

Il faro fondamentale per una concreta ed omogenea attuazione di tali politiche esiste ed è rappresentato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità fatta a New York il 13 dicembre 2006 con il relativo protocollo opzionale entrato in vigore il 3 maggio 2008; accanto a questa vi è anche la nuova strategia europea sui diritti delle persone con disabilità 2021-2030, adottata dall’Unione Europea nel marzo 2021 che attualizza e completa significativamente le linee guida da perseguire per una completa inclusione delle persone con disabilità.

Gli assi fondamentali d’azione della nuova strategia europea, come dichiarato dalla stessa U.E. si basa sui seguenti fondamentali punti:

l’accessibilità: la possibilità di circolare e soggiornare liberamente, ma anche di partecipare al processo democratico

una qualità di vita dignitosa e la possibilità di vivere in autonomia, poiché si concentra in particolare sulla deistituzionalizzazione, sulla protezione sociale e sulla non discriminazione sul luogo di lavoro

la parità di partecipazione, in quanto mira a proteggere efficacemente le persone con disabilità da qualsiasi forma di discriminazione e violenza, a garantire pari opportunità e accesso per quanto riguarda la giustizia, l’istruzione, la cultura, lo sport e il turismo, ma anche parità di accesso a tutti i servizi sanitari

il ruolo dell’UE nel dare l’esempio

l’intenzione dell’UE di fare della strategia una realtà concreta

la promozione dei diritti delle persone con disabilità a livello mondiale.

La nuova strategia rafforzata tiene conto delle diverse disabilità, comprese le minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine (in linea con l’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità), spesso invisibili.

Tiene conto dei rischi dello svantaggio multiplo affrontati da donne, bambini, anziani, rifugiati con disabilità e persone con difficoltà socioeconomiche, e promuove una prospettiva intersettoriale in linea con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e gli obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS).

In sintesi quindi, occorre che tutti gli stati, e non solo quelli europei, tengano debitamente conto degli strumenti sopra citati, adeguando il proprio impianto legislativo ai principi in essi declinati, ad ogni loro livello territoriale.  

Ogni persona con disabilità, in quanto persona, dev’essere messa in condizione di parità rispetto alle altre persone, in tutti gli ambiti della vita politica, sociale ed economica.

Il cambio di paradigma sulla disabilità, avverrà soltanto quando vi sarà la consapevolezza che la persona in condizione di disabilità non è e non dev’essere un costo ma un investimento, tenendo debitamente conto delle “ABILITÀ residue” di ciascuna persona, delle sue potenzialità e dei suoi desideri; occorre quindi costruire politiche di protezione sociale in ordine a quelle funzioni che dovessero venir meno rispetto alla condizione di disabilità, accanto ad altrettante politiche di promozione sociale per quanto concerne le innumerevoli “abilità” che ogni persona possiede, per sua natura, indipendentemente dalla sua condizione, prima fra tutte l’abilità della dignità che è propria di ciascun essere umano.

Se tutti questi strumenti, accanto ad una consapevolezza culturale, diverranno patrimonio di ciascuno di noi, attueremo quel cambio di paradigma che tutte le persone con disabilità accanto alle loro famiglie auspicano, non già nell’interesse particolare di una categoria, ma nell’interesse di tutta la comunità; ed ecco che si attualizzerebbe quello che chiamo: “il mio mantra”: 

“DOVE VIVE BENE UNA PERSONA CON DISABILITA’, VIVIAMO MEGLIO TUTTI”! →

*Già Sottosegretario di Stato 

con deleghe a Famiglia e Disabilità

intelligenza artificiale

Intelligenza artificiale: il robot diventa umano

di Pino Nano

Giancarlo Elia Valori, nel suo ultimo libro sull’Intelligenza Artificiale – scrive Oliviero Diliberto Preside della Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma – non cessa di stupirmi e stupirci per l’impressionante profondità e varietà di interessi e di conoscenze. Ci prende per mano e ci guida per terre incognite, offrendo continui stimoli intellettuali. Ogni pagina si presta a letture e riletture, perché ognuna di esse suggerisce uno spunto, una riflessione, un approfondimento, una curiosità”. Parliamo qui dell’ultimo libro di Giancarlo Elia Valori, ex manager di Stato, oggi acuto e riconosciuto analista internazionale di geopolitica, Intelligenza artificiale tra mito e realtà. Motore di sviluppo o pericolo imminente? (Rubbettino Editore), presentato lo scorso 30 novembre al Senato. 

– Prof  Valori, ma è vero che l’Intelligenza Artificiale condizionerà pesantemente anche il mondo della comunicazione e del giornalismo?

«Come faccio a non dirle la verità? L’ondata di intelligenza artificiale ha attraversato e sta attraversando diversi settori quali i servizi pubblici, l’istruzione e l’assistenza medica. Naturalmente, l’industria dei media non è da meno: molti media in Italia e all’estero hanno esplorato ed esplorano l’intelligenza artificiale e le notizie relative ad essa. Si può dire che questo è il momento migliore e peggiore per lo sviluppo dell’industria dei media».

– In che senso, professore?

«L’ambiente esterno è in rapida evoluzione e continua a influenzare l’industria delle notizie. I media sono sempre stati cauti, camminando sul ghiaccio sottile. Quanto cambiamento porterà l’intelligenza artificiale al giornalismo? È sovversione o assistenza? Come dovrebbe rispondere il giornalismo ai cambiamenti? Vale la pena pensare a tutti i tipi di problemi nel settore delle notizie».

– Professore, mi aiuti a tradurre il concetto: tra giornalismo e Intelligenza Artificiale il rapporto potrebbe dunque non essere idilliaco?

«Ci sono da analizzare i pro e i contro dell’applicazione dell’intelligenza artificiale nel giornalismo per considerare se la loro combinazione è un’opportunità o una sfida che può annullare il giornalismo stesso. Forse è ancora presto per trarre le conclusioni che mi chiede».

Ma procediamo per gradi. 

La prima cosa che colpisce di questo libro è la dedica iniziale che il vecchio economista e manager italiano Elia Valori dedica a sua madre: “A mia madre – si legge – moderna e instancabile, che ha vissuto con lo sguardo rivolto al futuro, sempre ancorata ai grandi principi etici dell’Umanesimo e della solidarietà”. Poi tutto il resto, che è di un interesse straordinario, un saggio pieno di suggestioni e di provocazioni culturali di ogni tipo, aggiornatissimo, erudito, informato, scritto con il piglio del grande esperto informatico – e magari il vecchio professore non lo è neanche –, ma tutto questo avviene senza colpo ferire, con una naturalezza che ci aiuta finalmente a capire verso quale dimensione futura ci avviamo e quale sarà comunque nei fatti la vita quotidiana che verrà dei nostri figli e dei nostri nipoti. Quasi inimmaginabile, ma il vecchio analista di politica internazionale scava nel cuore della modernità, e da vecchio maniaco delle ricostruzioni giornalistiche d’altri tempi ci prende per mano e ci aiuta a conoscere meglio cos’è oggi nei fatti e concretamente quella che gli americani chiamano molto confidenzialmente l’AI, l’Intelligenza Artificiale. 

Oliviero Diliberto, che firma la prefazione del saggio, scrive senza nessuna mediazione di sorta: “Il libro che avete tra le mani indaga questo fenomeno completamente nuovo con lo spirito giusto: mettendo, cioè, da parte ogni vecchia certezza tolemaica e affrontando senza rete – come in una svolta copernicana contemporanea – una materia così inedita e complessa, per molti aspetti letteralmente sconvolgente”. 

Il vecchio Professore di Diritto Romano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari, e oggi Preside della Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, è ancora più schietto: “È un libro questo di Giancarlo Elia Valori che studia questi fenomeni in modo coraggioso, vorrei dire perfino intrepido, ed altruista. Impiego senza remore- sottolinea- quest’ultimo termine: altruista”.

In realtà, Giancarlo Elia Valori dimostra di sapere quasi tutto dell’Intelligenza Artificiale, e il racconto che ci propone è quasi un romanzo, scritto con estrema leggerezza e un linguaggio modernissimo, un libro che si legge tutto di un fiato, avvolgente intrigante consapevolmente magico per via del racconto che Elia Valori ne sa fare dall’inizio fino alla fine. E parlo di “magia” se non altro per gli scenari “straordinariamente meravigliosi” che l’autore ci propone nell’affrontare un tema così complesso, facendoci immaginare che un giorno a salvarci da un processo penale o da un agguato informatico, o a risolvere i mille rebus di un complicato incidente della strada, non saranno né gli avvocati di parte né i periti né i consulenti informatici, ma sarà l’uso corrente dell’Intelligenza artificiale a cui il mondo si rivolgerà in maniera corrente. 

È la favola del “robot che diventa umano”, magari con un cuore meno influenzabile del nostro, ma con una conoscenza di dati che permetterà al robot di leggere e analizzare gli atti di un processo in un nano-secondo dando poi la soluzione migliore per chiudere la controversia. Inimmaginabile, irripetibile, fantascientifico, quasi improbabile.

“Tutto il mondo del diritto – ammette Oliviero Diliberto, che era stato anche Ministro della Giustizia dal 1998 al 2000, Governo D’Alema- viene investito dall’irruzione dell’intelligenza artificiale nelle nostre vite. Pensiamo alla macchina intelligente quale possibile strumento decisionale nei processi in tribunale e nelle ADR, alternative dispute resolution”. 

Ma la domanda centrale che il giurista si pone è fondamentale: “È ragionevole affidare il giudizio su umani ad un essere non umano privo di sentimenti, per avere un giudizio meccanico, certamente oggettivo, anche imparziale, ma del tutto impersonale?” 

E ancora, sempre in tema di diritto, pensiamo al problema della responsabilità, penale e civile, per i comportamenti delle macchine. 

– È sempre da attribuire al programmatore? 

Per Giancarlo Elia Valori «Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale delineano cambiamenti rapidi e diffusi delle interazioni tra le persone ed i sistemi dotati di capacità di ragionamento. Si aprono nuove possibilità della IA, anche in sinergia con sistemi robotici, in qualità di assistenti degli esseri umani nello svolgimento di vari compiti come il lavoro, la ricerca di informazioni in Rete ed in generale la soluzione di problemi. Di conseguenza è necessario affrontare nuove problematiche di etica applicata che rendono opportune riflessioni intorno a dignità, identità e sicurezza della persona umana, in merito all’accesso equo alle risorse tecnologiche, alla responsabilità individuale o collettiva e alla libertà di ricerca». 

C’è un paragrafo del saggio in cui Elia Valori spiega in maniera davvero magistrale come anche il mondo dell’intelligence sarà radicalmente stravolto dall’Intelligenza Artificiale, con un pianeta letteralmente controllato dalle macchine, dove ogni singolo cittadino potrà essere intercettato e seguito da qualunque parte del mondo con dei sistemi di sicurezza mai provati prima d’ora, un tuffo nel futuro, ecco cos’è questo libro di Valori, dove c’è di tutto, dove filosofia morale e tecnica avanzata del linguaggio, analisi logica e scienza delle probabilità, politica reale e immaginazione, vanno di pari passo, in simbiosi, come se fossero parte comune della stessa fetta di pianeta e di mondo, l’altra faccia della medaglia insomma, tra il possibile e l’impossibile. 

Ci sono mille risvolti che questo tema dell’AI comporterà in futuro sulla vita del pianeta, perché l’AI potrà diventare fondamentale anche nella vita più intima di ognuno di noi. 

La professoressa Franca Melfi, pioniera della chirurgia robotica in Italia, e tutor ufficiale in quasi tutto il mondo del robot “Da Vinci”, quello che viene normalmente utilizzato oggi in sala operatoria per la sezione dei tumori più aggressivi e più irraggiungibili dal bisturi del vecchio chirurgo, ci spiegava proprio qualche giorno fa all’Università di Pisa di come l’Intelligenza Artificiale potrà essere utile a salvare sempre di più nuove vite umane, ma la cosa forse più bella che questa ricercatrice che il mondo scientifico internazionale invidia all’Italia ci ha insegnato è lo slogan che riporto qui fedelmente e che ci dà la sintesi del nuovo libro di Giancarlo Elia Valori: “L’Intelligenza Artificiale sarà determinante, ma a guidare la macchina in sala operatoria ci sarà comunque sempre un chirurgo”. 

Il saggio di Elia Valori deve essere piaciuto molto a Oliviero Diliberto che del vecchio manager scrive: “Elia Valori, che vanta una competenza praticamente unica nel campo della geopolitica globale, molti suoi straordinari libri sono ad essa dedicati, offre al lettore una visione strategica del problema. Putin poteva affermare, lo ho appreso leggendo questo volume, nel 2017 che “chi diventerà leader nel campo dell’intelligenza artificiale dominerà il mondo”. Così, si spiegano anche le pagine splendide di Valori dedicate alla Cina e all’uso dell’intelligenza artificiale contro il terrorismo, all’intelligence in rapporto con le nuove tecnologie – tanto più durante la pandemia – all’uso militare, larghissimo, di questi nuovi mezzi”.

La lettura del libro di Giancarlo Elia Valori è come un caleidoscopio: un avvicendamento continuo e fantasmagorico di suggestioni, informazioni, immagini, ipotesi sul futuro. Vertiginoso gioco intellettuale.

Ma cos’è in realtà l’Intelligenza Artificiale?

Oliviero Diliberto qui fa sua la risposta assoluta di Giancarlo Elia Valori: “Dell’Intelligenza Artificiale sappiamo, ma sappiamo ancora troppo poco”. →

Etica degli affari

Etica degli affari, tra reputazione e legalità

di Erika Del Fiacco

L’uomo virtuoso può essere identificato in colui che nel fare le proprie valutazioni o scelte personali, economico-sociali, politiche, riconosce e accetta l’ordine razionale necessario del mondo moderno. 

Storicamente, i filosofi delle dottrine etiche (Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro, ma anche Kant, Fichte, Hegel), hanno sempre volto la loro attenzione a due obiettivi differenti, spesso ricercati congiuntamente. Da un lato si sono proposti di raccomandare l’insieme dei valori più adeguati al comportamento morale dell’uomo; dall’altro, hanno mirato allo studio del comportamento speculativo dell’uomo tentando di ricondurre il comportamento morale dell’essere umano all’etica.

Nell’epoca antica come in quella moderna, gli impulsi umani determinano le scelte che è possibile fare tenendo fede a un comportamento virtuoso che consente di dominare gli impulsi sensibili secondo il criterio del giusto mezzo (ragione, coscienza, virtù etiche quali, coraggio, temperanza, liberalità, mansuetudine ecc.), con esclusione degli estremi viziosi, dominati dalle passioni. 

Ecco che, con l’accentuarsi degli interessi civili, gli obblighi morali non possono essere riconducibili all’esclusivo piacere e liberalità umana del singolo. Nasce dunque, quell’imposizione della forza statuale che, attraverso le norme comportamentali, mira al concretizzarsi della pace sociale e del benessere condiviso.

Nella tradizione e nella civiltà del mondo Mediterraneo e Atlantico, si è sempre riposta particolare attenzione alle relazioni intercorrenti tra i campi dell’etica e dell’economia. Se da un lato l’economia appare quel settore nel quale l’operatore economico agisce esclusivamente per il proprio tornaconto o profitto d’impresa, determinando per il consumatore l’utilità nel ricevere sul mercato servizi e prodotti; dall’altro lato le imprese e il mercato consentono di assicurare l’allocazione efficiente delle risorse, con le conseguenti considerazioni etiche in materia ridistributiva. Nella logica di ispirazione libertarista e contrattualista il benessere della collettività è l’obiettivo garantito con la soddisfazione delle preferenze degli individui che, in primis, riguardano i beni di consumo; mentre, l’obiettivo del sistema economico è l’accrescimento del benessere dei suoi membri, nonché il potenziamento dell’interazione tra gli attori e gli operatori, nell’ottica dello sviluppo economico.

Ed ecco che, molti di questi aspetti esaminati, intervengono nella cosiddetta responsabilità etico-sociale delle imprese. Sempre più di frequente, gli attori economici, pur interessati al proprio profitto, senza badare a costi e/o a risparmi, adottano procedure di controllo interno, come per esempio la due diligence, l’internal auditing e la compliance aziendale per conformarsi a protocolli, norme, regolamenti, guides lines di buone pratiche, nonché adottano codici etici e di condotta per rispondere alle richieste etico-morali mosse dalla società civile e che coinvolgono interessi anche di chi nella veste di consumatore, investitore, ambientalista ecc. non è interessato al tornaconto. 

Di qui, il Business Ethics, l’etica degli affari o anche l’etica applicata alle attività economiche. Branca della più ampia disciplina della filosofia morale che, in forma di etica applicata, esamina il mondo del business nelle sue due componenti: l’una empirica e pratica fatta di tecniche mutuate dalla finanza e dal marketing d’impresa; l’altra, teorico-filosofica. Entrambe si prefiggono di studiare, in modo congiunto, il comportamento del mondo impresa-finanza, con lo sguardo volto ai principi liberali dell’economia e dell’autonomia individuale. 

Già durante la crisi economica degli anni ’70, negli USA, il Business Ethics si faceva strada, come branca autonoma. Solo negli anni ’80 però, l’etica degli affari raggiunge l’Europa Occidentale. Nel 1984, in Olanda, presso la School of Business dell’Università di Nijenrode e Breukelen, viene istituita la prima cattedra di Etica degli Affari mentre, nel ‘94 veniva pubblicato il primo manuale intitolato Business Ethics. A European Approch.

Oggi, l’insegnamento dell’etica degli affari s’è diffuso in molti Paesi, europei ed extra europei. In Italia, non senza difficoltà, l’insegnamento dell’etica e della filosofia dell’impresa è stato inserito in corsi accademici di scienze giuridiche, economiche, politiche e sociali, ma ancora c’è da fare tanta strada.

In generale, l’etica degli affari può essere ricondotta ai comportamenti di individui (manager, lavoratori, imprenditori) e alle pratiche delle imprese che dovrebbero o non dovrebbero essere adottate, sino alla valutazione del governo e delle politiche pubbliche in relazione al mercato, sia a livello nazionale che internazionale.

L’internazionalizzazione delle imprese e la globalizzazione dei mercati finanziari hanno avuto un forte impatto in ordine all’etica degli affari, tanto da venirsi a ideare il concetto di internazionalizzazione dell’etica degli affari o International Business Ethics.

Le differenze culturali, non è possibile negarlo, creano spesso differenze morali irrisolvibili tra società. Ecco allora che l’Etica Internazionale degli Affari garantirebbe uno standard comportamentale minimo di riferimento per i rapporti economici internazionali rilevanti e qualificanti come, per esempio: la non violazione dei diritti umani, il non sfruttamento del lavoro minorile, l’eliminazione di ogni discriminazione sul lavoro, fino all’abrogazione di ogni disparità di genere, la libertà di impresa, di associazione e di contrattazione, la tutela del mercato e dei consumatori, l’antifrode, lo sviluppo eco-sostenibile, la tutela ambientale ecc.

Insomma, l’etica degli affari può essere definita come l’insieme di norme morali e di regole di condotta che permettono di condurre gli affari in maniera universalmente riconosciuta come trasparente, onesta e corretta.

L’etica degli affari non può che essere direttamente proporzionale allo sviluppo dei valori della società moderna. Ciò equivale a dire che, per recuperare i principi morali basilari del mondo del lavoro, occorre potenziare i valori sociali su cui la società civile e la democrazia sono fondati. I due aspetti sono ben collegati e connessi tra loro.

Le aziende quindi, sempre più di frequente, si autoimpongono procedure e controlli interni che consentano di arginare l’assenza di etica, addirittura esternalizzando a consulenti e professionisti, per lo più avvocati d’impresa, lo studio di best practices che possano riportare nei binari della morale la realtà d’impresa. 

Oggi e ormai da anni, molte aziende si conformano a buone pratiche come per esempio in termini di Tutela della Privacy e di GDPR le quali, in modo sempre più preminente, interessano e coinvolgono non solo gli attori principali del mercato come le imprese bensì, anche chi si relaziona con esse e cioè, fornitori, clienti, professionisti, consulenti, finanziatori, stakeholders, P.A., enti pubblici e privati, associazioni di categoria, il terzo settore, ecc. La finalità della Tutela della Privacy è quella di garantire che i dati personali di chi entra in contatto con la realtà d’impresa vengano gestiti, raccolti, modificati, conservati nel rispetto delle prescrizioni sancite dal Regolamento UE 2016/679, con riconoscimento a vantaggio del singolo di poter esercitare i diritti ex artt. 15-22. In caso di violazione, l’interessato che vede violato il proprio diritto alla Privacy può presentare reclamo al Garante della Privacy ex art. 58 del Regolamento richiamato, con la conseguente istruttoria preliminare e l’eventuale procedimento amministrativo che, può sfociare nell’adozione dei provvedimenti di tutela sanzionatori. Avverso la decisione del Garante è possibile fare ricorso ex art. 143 e 152 del Codice (D.Lgs. n. 196/2003 e ss.mm.ii.) e del Regolamento. Di recente, il Regolamento UE 2016/679 ha introdotto il GDPR (General Data Protection Regulation) che ha rafforzato la tutela dei dati sensibili delle persone fisiche, anche rispetto alla circolazione dei dati personali dentro e fuori il territorio Europeo. Importante, la figura ad hoc del Data Protection Officer (D.P.O.) o Responsabile della Protezione dei Dati. Una nuova figura aziendale, solitamente di estrazione tecnico-legale, con potere esecutivo che affianca titolari, addetti e responsabili del trattamento affinché informino, gestiscano, sorveglino i dati e conservino i rischi seguendo le linee guida del Regolamento Europeo, peraltro facendo anche da tramite tra l’azienda e l’autorità. Anche il protocollo in tema di antiriciclaggio ex D.Lgs. 125/2019 può essere considerato uno strumento utile per enti, organizzazioni, P.A., imprese per curare un aspetto strategico: il normale funzionamento dei sistemi di pagamento. La finalità della normativa è quella di conservare e ridurre i potenziali rischi aziendali connessi all’incertezza della lecita provenienza dei flussi finanziari che possono trovare fonte in attività criminali e terroristiche. Quindi, di conseguenza, in caso di comportamenti omissivi che non consentano l’identificazione e il successivo eventuale recupero dei flussi di illecita provenienza, è opportuno sia adottata la sanzione di natura amministrativa, punitiva ai sensi e per gli effetti dell’art. 58.

Ad oggi, governi, associazioni di imprese, Borse Valori, Commissioni o Organizzazione dei Paesi più sviluppati hanno emesso leggi, decreti, regolamenti, codici professionali e di categoria che possano meglio delineare il campo etico morale degli operatori economici. Ciò grazie alle politiche aziendali di governance, di controlli interni e di valutazione del rischio d’impresa.

In Italia, per le medesime finalità e già dai primi anni del secolo scorso, sono state emesse importanti regolamentazioni.

A scopo espositivo e non esaustivo, per esempio, il Codice Preda o di Autodisciplina emesso dalla Borsa Valori di Milano nel 1999 e revisionato nel 2006 e improntato sul principio del comply or explain. E più precisamente, concretizzantesi nella facoltà delle aziende di adeguarsi alle norme comportamentali prescritte nel Codice o, in alternativa, di spiegare le motivazioni per cui non si sono uniformate ad esse per di più, prevedendo l’istituzione all’interno del C.d.A. di un organo di controllo interno dedicato e denominato Comitato di Controllo Interno.

E ancora, per esempio, a vent’anni dalla sua adozione, il D.Lgs. 231/01 disciplinante la “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”. Quest’ultimo, nell’ordinamento italiano ha introdotto la responsabilità penale delle persone giuridiche, delle società, degli enti e delle associazioni anche prive di personalità giuridica verso la P.A. che si aggiunge a quella della persona fisica che, materialmente, ha commesso l’illecito (es. di reati rubricati e perseguiti secondo il decreto: indebita percezione di erogazioni pubbliche, truffa e frodi informatiche allo Stato e agli Enti Pubblici, corruzione e concussione, falsità in monete, carte di credito e valori di bollo, commissione di reati societari come falsità in bilancio, relazioni e comunicazioni sociali, impedito controllo, commissione di delitti terroristici ed eversivi, abusi di mercato, reati ambientali ecc.). Con tale decreto si è maggiormente punito il compimento di alcuni illeciti penali con il coinvolgimento del patrimonio degli enti e degli interessi economici dei soci i quali, fino all’entrata in vigore della norma, non pativano conseguenze dalla realizzazione di reati commessi a vantaggio della società, degli amministratori e/o dei dipendenti.

Tuttavia, la legge prevede che vi sia esonerabilità dalla responsabilità e quindi la non sanzionabilità, se per esempio nell’ambito di un procedimento penale per uno o più dei reati societari imputabili ex D.Lgs. 231/01, l’impresa o la persona giuridica dimostrino di aver adottato dei modelli di organizzazione, di gestione e di controllo idonei a prevenire la realizzazione del fatto di reato incriminato, provando quindi che la commissione del reato non deriva da una propria “colpa organizzativa”, anche mediante l’affidamento a un organo di controllo interno (Organismo di Vigilanza, O.D.V.) di vigilare sul rispetto del modello adottato secondo le disposizioni di legge. Le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato ex D.Lgs. 231/01 sono: sanzioni pecuniarie, sanzioni interdittive (tra esse: interdizione dall’esercizio di attività, sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze, concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, divieto di contrattare con la P.A., salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi, sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, divieto di pubblicizzare beni o servizi), confisca, pubblicazione di sentenza.

Non meno importante, infine, nell’elencazione meramente esemplificativa delle buone pratiche adottabili, la Legge sul Risparmio n. 262/2005, indirizzata alle società quotate in borsa con la finalità, dopo i casi Parmalat e Cirio, di tutelare i piccoli risparmiatori. Ciò, con l’assegnazione di maggiori poteri agli azionisti di minoranza, con maggiore rigore nella trasparenza, anche nell’adesione alle norme comportamentali del Codice Preda già richiamato e con maggiori responsabilità riconosciute in capo a chi si occupa della redazione dei documenti contabili societari, con il conferimento di maggiori poteri di vigilanza da parte della Consob.

Tutti gli strumenti di best practices sin qui elencati assieme ad altri, quali Tutela del Consumatore, Sicurezza sul posto di lavoro, Sicurezza informatica, Qualità e Certificazioni Iso9001, fanno sì che debba essere rispettata la competitività aziendale dell’ente, dell’impresa, dell’associazione, dell’organizzazione, senza per questo violare o forzare le disposizioni normative, di etica e di buona condotta. 

Qualora questo succedesse, potrebbe determinarsi un danno alla reputazione della stessa società nei confronti di partner e clienti. È evidente allora che, una società solida e rispettosa delle regole – non solo di mercato, ma anche etiche e di buona condotta – ispira di certo più fiducia nel pubblico e nei finanziatori.

È chiaro allora che, l’azienda seria e virtuosa deve porre per se stessa e per il suo entourage le basi di una tutela a tutto tondo che richiederà di procedere all’adeguamento capillare e continuo, step by step, del business aziendale alla normativa aziendale disciplinante il settore in cui in cui la medesima esercita la propria attività. La conseguenza, per la realtà aziendale sarà eccezionale e unica: avrà relazioni interne ed esterne che indurranno a recensire positivamente quella impresa, attribuendole prestigio, credibilità e affidabilità. Le percezioni, opinioni, aspettative e influenze positive riposte in quella particolare realtà organizzativa d’impresa, contribuiranno maggiormente a innalzare il sentiment nell’ambito della comunità fisica e digitale e ad attrarre a sé i suoi interlocutori, a discapito dei competitor. La reputazione di un’impresa, di un Ente, di un’Organizzazione, di un Comune o di una Provincia, oggi più che mai, segna una nuova conquista epocale nel sistema economico-produttivo contraddistinto dalla internazionalizzazione delle imprese e dalla globalizzazione dei mercati finanziari. Infatti, la corporate reputation, attraverso un’attenta analisi e mediante dei qualificanti indicatori può essere misurata da esperti del settore (analisti, matematici), concorrendo così alla creazione di uno status reputazionale tangibile e certificato che sarà in grado di mettere al riparo la realtà organizzativa dell’impresa o dell’ente da ogni potenziale attacco, anche di natura virtuale. Tra gli indicizzatori dell’asset reputazionale possiamo annoverare: la customer satisfaction (fidelizzazione della clientela, assenza di reclami e similari), influencer marketing (capacità di influenzare e fidelizzare in positivo la clientela), social & marketing positioning (misurazione della posizione acquisita all’interno dei social network in termini di sentiment e performance del brand, anche con sguardo ai competitor posizionati all’interno del mercato di riferimento), controll risks (analisi dei maggiori rischi nel mercato di riferimento anche in relazione ai competitor). È evidente, che ottenuta la certificazione reputazionale, ai fini della strategia aziendale e/o dell’Ente, occorrerà procedere con l’ordinario monitoraggio reputazionale per avere sotto controllo l’acquisito reputation status, per prevenire attacchi reputazionali e/o per adottare rimedi in caso di rischio o di attacco reputazionale. La reputazione, quale concetto relazionale che si costruisce grazie all’interazione tra più soggetti, generando vincoli e opportunità, ha natura dinamica e transitiva. Si modifica e evolve a seconda della cultura sociale e del sentire comune, oltre che dai comportamenti etici e di condotta dell’impresa. Va da sé che la corporate reputation va doverosamente coltivata, riaffermata e monitorata. Le cause di un potenziale attacco alla reputazione certificata e non, possono essere le più disparate: interne o esterne. Tra le cause interne possiamo indicare le disfunzioni organizzative, gli inadempimenti contrattuali e legali, gli adempimenti errati e le omissioni aziendali con effetti domino, i comportamenti scorretti, non professionali e non trasparenti con fornitori, clienti ecc.; mentre, tra le cause esterne possiamo elencare gli attacchi di hacker, la diffusione di notizie false e tendenziose anche sui social, la contraffazione o falsificazione del proprio brand ecc. Quali le conseguenze di un tale attacco reputazionale? Immense e certamente disparate per essere in grado di aggredire l’impresa o l’ente dal punto di vista legale, produttivo, di mercato, anche con riduzione del valore delle quote societarie, con perdita di chance anche in termini di rapporti con partners e finanziatori nonché, in termini di perdita della clientela, calo del fatturato, declassamento del proprio rating e del proprio brand, devalorizzazione della mission aziendale ed altro. E allora, è sensato ritenere che una reputazione certificata, rispetto ad una non certificata, trovi maggiore tutela all’interno del mercato e delle aule di tribunale ove, in tale ultimo caso, il conflitto non è stato risolto in sede stragiudiziale, anche mediante l’ausilio di istituti deflattivi come la negoziazione assistita (D.L. 12 Settembre 2014 n.132, convertito in L. 162/14), la mediazione civile e commerciale (D.Lgs. 28/2010) o l’arbitrato (art. 806-840 c.p.c.). In via definitiva, la reputazione aziendale è senz’altro un asset strategico per il valore d’impresa poiché trasferisce valore economico all’azienda. Celebre la frase del noto finanziere Warren Buffet: “Ci vogliono vent’anni per costruire una reputazione e cinque minuti per rovinarla. Se pensi a questo, farai le cose in modo diverso”.

Come è possibile dedurre da quanto sino a ora rappresentato, l’adozione da parte dell’azienda del codice etico e di condotta, nonché l’adozione di modelli organizzativi, di gestione e di controllo come quelli previsti ex D.Lgs. 231/01, ma anche l’adozione strategica degli strumenti di due diligence, compliance, internal auditing, congiuntamente a tutte le altre best practices suindicate, ivi inclusa l’adozione di modelli a Tutela di Privacy, GDPR e in tema di antiriciclaggio, nonché l’ultima menzionata certificazione reputazionale (non per questo meno importante), acquisiscono maggiore rilievo quando a adottarle sono aziende sequestrate o confiscate ai sensi del Codice Antimafia, D.Lgs. 159/2011, modificato dal D.L. 76/2020, convertito in L. 120/2020. In tal caso, infatti, il bene o l’azienda sequestrata va bonificata e riportata alla legalità, fatta salva la confisca definitiva. L’amministratore giudiziario, in collaborazione con il giudice delegato del Tribunale – sezione misure di prevenzione e in sinergia con la polizia giudiziaria, terminate le indagini patrimoniali, in seguito alla notifica del decreto di sequestro procede, per il tramite della P.G., all’esecuzione del sequestro mediante l’immissione in possesso del bene e/o dell’azienda. Di lì in futuro, dunque, sarà l’amministratore giudiziario a gestire, amministrare i beni sequestrati, avvalendosi di uno staff di coadiutori e preposti (avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, analisti-programmatori ecc.) alla gestione dei beni sottoposti a misura di prevenzione, nell’ottica della bonifica e della restituzione del bene e/o dell’azienda alla liceità (con restituzione al preposto o alla ANBSC, in caso di confisca). Non a caso, nel nostro sistema economico, sempre più di frequente e con previsioni di crescita esponenziale, vi sono attività d’impresa gestite dalla criminalità organizzata che, peraltro, occupano i settori più disparati (agricolo, agriturismo, caseario, edilizia e costruzioni, alberghiero, grey economy ecc.). Tale tipo di attività criminale riesce a influenzare l’allocazione di investimenti e di risorse, distorcendo le normali regola della concorrenza. Ecco che per ridurre il gap tra gestione lecita e illecita di attività d’impresa, le disposizioni normative del Codice Antimafia e successive modificazioni. prevedono l’adozione di strumenti efficaci in contrasto alle mafie. E cioè, le cosiddette misure di prevenzione (personali e patrimoniali) tra le quali, vi sono il sequestro e la confisca dei beni, anche di natura aziendale e che si prefiggono di sottrarre alla disponibilità di chi delinque beni e aziende (quote societarie, conto correnti ecc.) allorquando, il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta; e allorquando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La finalità è quella di sottrarre la disponibilità temporanea (sequestro, ex art. 20 Codice Antimafia) o definitiva (confisca, ex art. 2 Codice Antimafia) del bene o dell’azienda ai gruppi criminali per ripristinare la legalità, depauperando anche a livello simbolico la forza della criminalità. 

Per comprendere meglio, è utile pensare al riutilizzo dei beni sequestrati e confiscati che, una volta bonificati, creano da un lato, opportunità di lavoro e di ricchezza sul territorio; e dall’altro la diffusione della cultura della legalità e dell’impresa che opera secondo le regole. Solitamente, le principali destinazioni non imprenditoriali dei beni sequestrati e confiscati nel riutilizzo si pongono come obiettivi: l’aggregazione sociale, l’informazione e l’educazione, la tutela delle fasce deboli, la riqualificazione urbana, le attività ludico-sportive-ricreative ecc. 

I beni requisiti, dopo la confisca, nella disponibilità dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) sono certamente più cospicui in termini di beni immobili, ma non è insignificante anzi, è in esponente crescita, il numero delle aziende e dei cespiti aziendali sottoposti alle misure di prevenzione. Spesso i beni sequestrati e confiscati non versano in uno stato di conservazione e di redditività ideale, in particolare versano in tale stato le imprese, che di frequente già dopo il sequestro e nel periodo tra sequestro e confisca definitiva, perdono la competitività a stare sul mercato. Tale fenomeno di devalorizzazione, non necessariamente è generato dalla crisi del mercato bensì, dalla malagestione da parte della proprietà criminale prima dell’adozione della misura di prevenzione, dalla chiusura degli affidamenti bancari post-sequestro, dalle lunghe procedure di sottrazione dei beni nella disponibilità della compagine criminosa, nonché dall’iter burocratico per il riaffidamento dell’azienda ad una nuova compagine. 

Ecco dunque, che il Codice Antimafia per facilitare l’attività dell’interprete raccoglie in sé le procedure di gestione, destinazione ed assegnazione dei beni confiscati, oltre le disposizioni in materia di misure di prevenzione, prevedendo tra queste ultime, agli artt. 34 e 34 bis “l’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende” (nel caso in cui le attività economiche anche di natura imprenditoriale siano sottoposte a misure intimidatorie o di assoggettamento alla mafia), nonché “il controllo giudiziario delle aziende” (nel caso in cui sussistono circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività). 

Per dare contezza circa l’importanza delle misure di prevenzione ora citate, basti pensare che, di recente, il Tribunale di Milano, sulla scorta di indizi sufficienti, ha previsto l’applicazione dell’art. 34 D.Lgs. 159/2011 all’azienda Uber Italy S.r.l. (leader nella consegna pasti a domicilio o ridesharing), per avere accertato l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori “vulnerabili” (riders), con l’ipotesi della criminalità da profitto. Pertanto, l’auspicio per la realtà aziendale menzionata è che, attraverso la misura di prevenzione voluta dall’A.G., vi sia l’effettiva bonifica e la restituzione alla legalità dell’azienda, con il recupero dell’economia legale dell’attività d’impresa che, certamente, necessiterà di fare proprie tutte quelle buone pratiche messe in evidenza, non solo per garantire continuità lavorativa all’azienda e ai suoi lavoratori, ma anche per affermarsi quale impresa competitiva sul mercato per la mission esclusiva che occupa, senza però per questo violare le disposizioni normative, di etica e di buona condotta, con la conseguente inevitabile conquista di una buona reputazione aziendale in ragione del condurre gli affari in maniera universalmente riconosciuta come etica, onesta, corretta, trasparente e virtuosa. →

Civilta

La Civiltà del Mare nella storia del Mondo

di Pasquale Amato

Cos’è il Mediterraneo per l’Occidente o, anche, cos’è l’Occidente per il Mediterraneo? Due spazi e due culle di civiltà, due complementi dell’esperienza storica di un mondo di mezzo, collocato tra civiltà antiche che si affermavano e civiltà da scoprire. Tuttavia, entrambi essenziali nel confermare l’esistenza di un vincolo nella storia che nelle peripezie di Odisseo, l’Ulisse dei nostri ricordi, trova la sua centralità quasi fosse il primo eroe di un Occidente che lascia l’Olimpo nel suo confronto con il mondo. 

Se l’Odissea è il poema epico cui ogni erede della cultura pre-ellenistica affida le sue origini ad Omero prima che ad un Erodoto o dopo di un Tucidide, nelle avventure di Odisseo si risolvono i rigurgiti della costruzione di un’identità a metà strada tra continente e mare. Una sorta di alba delle relazioni politiche ed economiche che ha collocato il Mediterraneo, e ciò che sarebbe stato l’Occidente, al centro della storia del mondo. 

Tra guerre e alleanze, ragioni economiche e di egemonia dei mercati, oltre che di affermazioni di religiosità vicine ma lontane nello stesso tempo pur condividendo lo stesso Dio, il Mediterraneo ha rappresentato non solo un lago per le civiltà pre e post-ellenistiche, o pre e post-romaniche o delle scorribande saracene, poi delle flotte delle potenze moderne o delle vie terrestri per la conquista di un passaggio ad Oriente prima del Canale di Suez, ma un luogo di confronto/scontro per la conquista del potere marittimo e del potere continentale. Uno spazio umanizzato e culturalmente liquido, dove alla contaminazione culturale si è sostituita la sovrapposizione strategica di linee di supporto delle politiche di potenza soprattutto dalla fine dell’Ottocento ad oggi. 

Insomma, l’Occidente ellenistico, poi romano e ancora man mano europeo con l’ascesa delle monarchie e delle politiche di potenza ha affidato al mito il senso più profondo della ricerca, del viaggio, della fantasia, del sogno, della lucidità, dell’ironia, della maschera, dell’infinita capacità di metamorfosi. Ma se il mito ha permesso anche l’affermarsi di una politica egemone, pur costretto a dividerne le vicende con l’Islam ottomano, se ha cercato di affermare nel Novecento una versione idealizzata di una modernità votata ad affermare una supremacy occidentale – nonostante le guerre e le rocambolesche avventure coloniali – il mito dell’Occidente guida ed esportatore di valori ha permesso a culture in letargo di risvegliarsi, di manifestare il desiderio di vedersi riconosciuta una posizione preminente e un’importanza senza eguali nella formazione di una nuova via rispetto a quella europea. Ciò è valso per il mondo arabo e oggi per la Cina del nuovo impero, del nuovo millenarismo neoconfuciano e postmaoista. Dopo i successi e le crisi economiche degli ultimi anni del Novecento, la necessità di riorganizzare i rapporti politici e militari all’ombra dei mercati produttivi, il Mediterraneo cerca con difficoltà di ricollocarsi al centro delle relazioni mondiali nel tentativo di non veder spostare il centro di equilibrio e di interesse verso Oriente. 

Una necessità se non una condizione senza la quale non si potrebbe arginare, rideterminandone i fattori economici e di potenza, quello spostamento strategico verso Occidente che vede la Cina libera di intraprendere iniziative economiche nello spazio europeo come nel Nord Africa e negli Emirati. L’idea che la Nuova via della Seta si proponga come una strada di pura partnership è una illusoria visione di un modello cooperativo, quello messo in campo da Pechino, che usa l’apparente cooperazione per affermare una prospettiva di contrattazione competitiva nel governo dell’economia mondiale che spinge le risorse in surplus in quei mercati capaci di assorbirne le produzioni perché a ridotta competitività. 

In questo gioco a chi governerà gli scambi domani, il Mediterraneo, spazio di convergenza di interessi strategici rilevanti che vedrà il Vecchio e il Nuovo Mondo porsi alla resa dei conti, non può essere abbandonato a se stesso non solo dall’Europa continentale quanto dagli stessi Stati Uniti, questi ultimi troppo occupati a guardare cosa accadrà in Oriente dalla finestra del Pacifico piuttosto che da quella che dà sull’Atlantico.

Ecco, allora che l’idea che la contrattazione economica

si possa condurre in un altrove geopolitico lontano dall’Europa rende ogni sforzo pericolosamente inutile se Odisseo non riprenderà il largo nel tentativo di dominare i mari, leggasi mercati, di domani. 

D’altra parte, crisi o non crisi di vecchie autocrazie non più funzionali ai nuovi modelli di potere e di potenza, l’idea che il Mediterraneo possa essere un mercato di supporto alla crescita di economie diverse significherebbe svuotarlo di significato storico e di trasformarlo in una periferia del nuovo mondo, del nuovo ordine. 

Corridoi energetici, infrastrutture e produzioni nuovamente allocate nella regione offrirebbero al mondo nuove opportunità di equilibrio impedendo fughe in avanti di Pechino, mentre la Russia cerca di conquistare quanto possibile tra i nuovi due litiganti: Cina e Stati Uniti. 

Non si inventerebbe nulla che non si sia già stato sperimentato, ma senza crederci. La soluzione sulla quale ipotecare il futuro dell’Europa e degli Stati continentali esisteva e correva tra le acque del Mediterraneo e non solo. Dalle politiche commerciali delle convenzioni di Youndè – che attribuivano all’allora Comunità Europea una capacità di cooperazione e di sostegno dei Paesi del gruppo Acp (Africa,-Caraibi-Pacifico) – alla volontà di realizzare una comunità mediterranea nell’ambito di una possibile Conferenza di Sicurezza e Cooperazione nel Mediterraneo sino alla definizione della European Neighbourhood Policy. Una politica allargata ai proxies dell’Unione appena nata a Maastricht, inaugurata con la conferenza di Barcellona che si riunì il 27 e il 28 novembre 1995, rivisitata nel 2001, poi nel 2004, rivista dopo le primavere arabe e sino al 2015. Una politica con la quale si volevano mettere in comune capacità di guida concreta dell’economia del Mediterraneo venute meno, però, per effetto di scelte delocalistiche dei membri a maggior possibilità che hanno ridotto l’interesse verso il Mediterraneo prediligendo l’Oriente, considerato a buon mercato. 

La stessa Conferenza di Marsiglia del 3 e 4 novembre 2008 non aprì alcuna strada possibile per rivalutare un Mare che non è solo un mezzo, ma un ambiente, uno spazio economico ed umanizzato nel quale si confrontano Oriente ed Occidente. L’idea di coniugare obiettivi politici – con la creazione di una politica per garantire sicurezza e stabilità – con obiettivi economici che nel breve periodo avrebbero dovuto permettere l’istituzione di una zona di libero scambio già nel 2010 coinvolgendo i Paesi del Medio Oriente (EU- Middle East Free Trade Area Initiative, MEFTA) sembra essersi persa nelle nebbie di un Occidente troppo occupato a seguire il fascino di Circe piuttosto che prendere lezioni di disimpegno da Odisseo.

Oggi, l’idea di inaugurare una Politica europea verso il Mediterraneo non può non prevedere come e in che misura confrontarsi con la presenza della Cina non solo all’interno delle società che gestiscono le infrastrutturali, come il Porto del Pireo o le ambizioni su Trieste e Genova, ma nella gestione o condizionamento delle politiche economiche di molti Stati che si affacciano nel Mediterraneo o che ad esso ne sono a ridosso.   

Ma qualunque potrà essere il mondo all’indomani del regolamento di conti tra Cina e Stati Uniti, ogni nuova formula di equilibrio tornerà a cercare il suo centro al di là delle formule possibili di nuove città-stato interdipendenti, votate ad una self-governance, che si affacceranno in futuro. 

Perché, alla fine, il Mediterraneo è e rimane il miglior esempio, o laboratorio mai chiuso, di interconnessione economica, politica e culturale tra popoli costretti alla cooperazione nella diversità. Una ragione che l’Europa potrà cogliere se seguirà le tracce del suo Odisseo e la Cina, maga del momento, ne dovrà tenere conto e scendere a migliori condizioni. →

I

n sintonia con le riflessioni e le ricostruzioni di lunga e media durata di Fernand Braudel, il cammino della Storia ci ha insegnato che le infrastrutture dei trasporti (fluviali, marittime, viarie; dal XIX Secolo anche le Ferrovie e le navi a vapore sempre più grandi e veloci e, dopo la metà del XX Secolo, il trasporto aereo in costante evoluzione) sono state e sono risolutive per determinare lo sviluppo o l’emarginazione delle comunità in qualsiasi epoca e in qualunque parte del mondo. Chi le possiede se ne avvantaggia. Chi non le ha o le perde, oppure viene declassato a strutture secondarie o arretrate, è destinato ad essere escluso dai processi produttivi e si avvia verso una graduale emarginazione e una dolorosa ma inesorabile decadenza in tutti i settori dell’economia e della società.

A sostegno di questa tesi ritengo illuminanti gli esempi tratti da esperienze della storia mondiale.

1. Civiltà fluviali, Civiltà del Mare e Strade di Roma

Sino alla prima fase del XIX secolo d.C. i trasporti più agevoli erano stati soprattutto fluviali e marittimi. Gli spostamenti via terra, dopo le grandi e sicure strade di Roma (in parte abbandonate dalla caduta del suo Impero d’Occidente), avevano coinvolto in particolare le ondate migratorie dall’Asia all’Europa dei popoli nomadi (da Attila a Gengis Khan). Successivamente un ruolo considerevole lo avevano svolto le carovane degli zingari che giravano con tutto il loro variegato mondo artistico da una città all’altra del tardo Medioevo e dell’Età Moderna per intrattenere il popolo nel giorno della Fiera. 

Altri generi di viaggio via terra erano stati quelli dei mercanti che trasportavano merci da un continente all’altro (come la leggendaria Via della Seta dalla Cina alle coste del Mediterraneo o dell’Atlantico) e quelli dei nobili che erano soliti viaggiare in carrozza e circondati da consistenti scorte a cavallo. Tra essi divennero famosi sul finire del Settecento e in buona parte dell’800 gli intellettuali protagonisti del “Gran Tour”.

Le civiltà più antiche della storia umana sono state quelle fluviali e del mare. Appartengono al primo caso le civiltà fiorite lungo le rive dei grandi fiumi come il Nilo in Egitto, il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia, l’Indo e il Gange in India, il Fiume Giallo e il Fiume Rosso in Cina. Sono esempi calzanti nel secondo caso le grandi civiltà sviluppatesi nel bacino del Mediterraneo: dapprima la Cretese e la minoica e in seguito quelle dei Fenici e dei Greci.

Il successo di Roma fu determinato dall’arte somma che i suoi ingegneri raggiunsero nel costruire strade. Questa singolare perizia agevolò notevolmente la grande espansione territoriale e politica. L’avanzata degli Eserciti, la conduzione vittoriosa delle campagne militari, il consolidamento nei territori conquistati e la difesa dei confini andarono di pari passo con il progresso incessante raggiunto dai Reparti del Genio che affiancavano i Legionari provvedendo a tracciare strade, costruire ponti temporanei o definitivi su piccoli o grandi corsi d’acqua, edificare solide opere di difesa e inventare nuovi sistemi per scardinare le posizioni dei nemici. I genieri romani arrivarono a tale perfezione che ancora oggi nel panorama dei territori che conobbero l’amministrazione romana si possono ammirare ponti che resistono all’usura di millenni e acquedotti che ancora trasportano l’acqua per città e campagne. Infine si portarono dietro la loro memoria storica di città nata su un fiume ripetendo la loro esperienza con l’individuazione dei siti più adatti per fondare tante città sulle rive di fiumi, che ancora oggi sono la conferma delle loro felicissime intuizioni. Le città protagoniste nel Mediterraneo sono quelle fondate sul mare da Fenici e Greci, mentre sono quasi tutte di fondazione romana quelle nate sulle rive dei fiumi nelle aree interne dell’Europa sia meridionale che continentale sotto il Danubio e il Reno e nelle Isole britanniche.  

2. Le Repubbliche Marinare

Un caso altrettanto emblematico di quanto abbiano inciso sui destini di intere comunità le vie e i mezzi di comunicazione è quello rappresentato dai successi e dai declini delle Repubbliche Marinare italiane (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia). La loro ascesa a protagoniste della storia commerciale e culturale fu inarrestabile dopo l’Anno Mille, arrivando a dominare i traffici tra Estremo Oriente e Mediterraneo. La loro epoca d’oro fu mirabilmente rappresentata dalle memorie di Marco Polo e la testimonianza delle loro commistioni con le culture dell’Oriente si evidenzia tuttora nell’arte e nell’architettura, soprattutto a Venezia e a Pisa. Le loro fortune, che sembravano inarrestabili, entrarono in un primo momento di difficoltà con la caduta dell’Impero Romano d’Oriente, cui mise fine l’occupazione turca di Bisanzio nel 1453 e la nuova denominazione di Istanbul data alla capitale. 

3. Dopo il 1492 il centro nevralgico dal Mediterraneo all’Atlantico

Tuttavia il vero vento di un crepuscolo inesorabile si abbatté su di esse dopo il 1492. Con la spedizione di Colombo finanziata dal Regno di Spagna e l’entrata nella grande storia del Nuovo Continente, il centro nevralgico dell’economia e dei commerci si trasferì, per la prima volta dopo millenni, dal Mediterraneo all’Atlantico. Nel corso del Cinquecento le Repubbliche Marinare conobbero un processo lento ma incessante di decadenza (con esiti affini ma non contemporanei per ciascuna di esse, in base alle condizioni geopolitiche ed economiche di partenza). Emersero nel contempo come nuove protagoniste nello scenario mondiale le città portuali e gli Stati che si trovavano sulle coste dell’Atlantico e quindi favorite nelle relazioni col nuovo Continente. Amsterdam divenne la Città-Mondo nel cosiddetto “Seicento Olandese”. Dalla fine del Seicento – dopo la duplice sconfitta subita dalla Flotta inglese – lo scettro di Città-Mondo passò a Londra, che lo detenne per più di due secoli per cederlo a New York  soltanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale.  Nacquero i Grandi imperi coloniali di Spagna, Inghilterra, Francia, Olanda e Portogallo.

Le ricchezze provenienti dalle Americhe cambiarono inevitabilmente i rapporti di forza e determinarono nuovi equilibri economici, politici e culturali. L’esigenza di uno sfruttamento massiccio delle risorse mai prima utilizzate di immensi territori diede vita ben presto ad una delle pagine più vergognose della storia con lo sviluppo, per opera delle nuove grandi potenze, del trasferimento via mare in catene con i vascelli dell’Asiento di oltre venti milioni di schiavi dall’Africa alle Americhe. La schiavitù era sempre esistita in varie parti del mondo. Ma la tratta degli schiavi messa in opera per oltre due secoli, con una spregevole competizione tra di esse, non si era mai verificata in quella misura. Essa alimentò le immense fortune, grazie allo sfruttamento del lavoro schiavile, dei proprietari europei delle grandi piantagioni di prodotti tropicali e sub-tropicali (tra cui il cotone, il caffè e il tabacco). Mentre le risorse minerarie, quasi intatte per assenza nei popoli originari di un pensiero economico fondato sullo sfruttamento e la corsa alle ricchezze, incrementarono le casse degli Imperi coloniali e dei banchieri che ne sovvenzionavano con prestiti le guerre per disputarsi troni, terre, titoli e ricchezze (famosi divennero i Függer di Augusta per le loro anticipazioni ai Reali di Spagna).  

4. Il caso di Timbuctù

Passando alla vicina Africa a Sud del Sahara, è esemplare lo splendore per quasi mille anni  e l’incontenibile decadenza dalla seconda metà del Novecento della città di Timbuctù. A segnarne le sorti fu il porto fluviale nell’ansa più a nord del fiume Niger. Grazie a questa prerogativa vi confluivano e si incrociavano tutti i traffici provenienti dal Mediterraneo e diretti a sud del Sahara e viceversa. Timbuctù costituì pertanto il punto di incontro tra l’Africa nera e l’Africa arabizzata e divenne il maggior centro di cultura arabo-berbera del Sudan occidentale. Ospitava l’Università islamica, un centinaio di scuole coraniche, convegni di studiosi dell’intera Africa occidentale, artigiani famosi per la lavorazione del cuoio, dell’oro, delle stoffe. Ma nel corso del ’900 l’ansa del fiume è arretrata di parecchi chilometri più a Sud, come conseguenza dello sfruttamento intensivo dell’economia coloniale europea (in questo caso della Francia), fondata sulla monocultura in ogni singola colonia. Ne derivò l’abbattimento della varietà delle colture e il progressivo ritiro della Savana, che da millenni fungeva da barriera protettiva rispetto al deserto, causandone la desertificazione. Così, della città floridissima, che per secoli era stata il suggestivo luogo d’incontro tra “il cammello e la piroga”, restano oggi il mito e il ricordo con i polverosi moli ormai insabbiati. 

Passando al nuovo continente gli esempi potrebbero essere numerosissimi. Mi limito a farne due particolarmente significativi: La Habana e in tempi più recenti New York.

5. Il caso dell’Avana

Negli imperi coloniali europei d’America acquisirono funzioni di rilievo le città dotate di ottimi approdi, in posizioni che erano punti di partenza e di arrivo delle navi che attraversavano l’Atlantico nelle due opposte direzioni, tra le cosiddette madri-patrie e le colonie. Un ruolo preminente lo assunse nell’immenso Impero Spagnolo la Città dell’Avana, capitale di Cuba, la più grande isola dei Caraibi. Il suo porto – posto felicemente in una baia che ne garantisce tuttora una speciale protezione rispetto all’Oceano – è stato per secoli il primo dove giungevano le navi e i convogli provenienti dalla Spagna dopo il lungo e insidioso attraversamento dell’Atlantico. Dal suo porto potevano poi dirigersi in tutte le altre colonie dell’Impero spagnolo. Lo stesso percorso era quello inverso: le navi e i convogli che trasportavano uomini e merci verso la Spagna facevano tappa nel porto cubano prima di intraprendere la traversata. La conferma dell’importanza assunta dall’Avana viene da un episodio dell’aspra Guerra dei Sette Anni (1756-63), la prima di dimensioni mondiali perché  combattuta non soltanto nello scacchiere europeo ma anche nei territori coloniali. Originata dalla rivalità tra Inghilterra e Francia, coinvolse nelle sue varie fasi le altre potenze e i loro possedimenti in tutti i continenti. Gli inglesi riuscirono nell’agosto del 1762 – dopo un assedio di mesi – a forzare l’accesso al canale della baia del porto dell’Avana (la Fortaleza del Morro)  e si impossessarono della città sino alla chiusura della Guerra. L’occupazione si dimostrò talmente strategica da spingere la Spagna ad accettare – nel trattato di Parigi del 1763 (che sancì il passaggio di Canada, Antille, Senegal e basi in India dalla Francia all’Inghilterra) – di cedere a Londra la penisola della Florida pur di tornare in possesso dell’Avana. E, per evitare il ripetersi dell’evento, il Re Carlo III di Borbone dispose la costruzione, nel fianco del Canale del porto dopo il Morro, della più grande fortezza spagnola dell’intera America Latina: la Fortaleza de San Carlos de la Cabaña.

6. Il caso di New York

Quanto a New York, sino alla metà dell’800 era una città importante ma senz’altro meno di Boston, l’Atene d’America da cui era partita la prima scintilla della Rivoluzione per l’Indipendenza, di Philadelphia (dove si erano svolte le assemblee costitutive) e della stessa Washington, capitale federale inventata per superare le rivalità fra i centri più storicamente rilevanti. L’avvio dell’ascesa di New York verso la sua espansione inarrestabile sino alla Città-mondo dopo il Secondo Conflitto Mondiale fu il fatto di essere scelta come terminale delle grandi vie di comunicazione. 

Una prima tappa fu, nel 1866, la grande strada transcontinentale che aveva come polo, sul Pacifico, San Francisco. Dopo un decennio arrivò la ferrovia transcontinentale dal Pacifico all’Atlantico, cui si aggiunse la scelta della Transcanadian Railway di fare di  Vancouver e New York le due stazioni terminali. Questa concentrazione delle due grandi ferrovie impose il porto alla foce del Fiume Hudson come il principale approdo dei bastimenti a vapore che – assieme alle ferrovie – rivoluzionarono i trasporti nel corso dell’800. 

Quei mitici bastimenti che imbarcarono milioni di emigranti europei diretti verso il nuovo Eldorado si concentrarono sempre più sulla Città della Grande Mela rendendo necessaria l’apertura del Centro d’Immigrazione di Ellis Island (un isolotto artificiale costruito coi detriti rimanenti dagli scavi della metropolitana di New York, alla foce del fiume Hudson nella baia di New York, dove dal 1892 al 1954 passarono circa 12 milioni di immigranti). 

Lo sbarco a New York consentiva spostamenti più agevoli verso i nuovi territori della grande conquista del West, che conobbero il boom con la corsa all’oro verso la California e l’Alaska. Tuttavia, molti dei nuovi immigrati vennero attratti da questa metropoli in sviluppo irrefrenabile e si orientarono a sceglierla come meta definitiva. La parte più ambita divenne ben presto l’isola di Manhattan e il suo rapido sviluppo rese indispensabile elevare i palazzi, per recuperare in altezza lo spazio per nuovi edifici. Nacque così il fascino dello skyline dei grattacieli nella Città della Grande Mela, motore dell’economia degli USA e del Mondo.

7.1. Lo Stretto di Scilla e Cariddi sino al 1860

L’ultima meta di questo ampio e variopinto viaggio nello spazio e nel tempo è lo “Stretto di Scilla e Cariddi”, il mito più antico e famoso della letteratura mondiale. Nella loro storia plurimillenaria Reggio e Messina hanno vissuto un destino comune, sia nel bene che nel male. A determinarne il comune percorso è stata innanzitutto la posizione geografica, al centro esatto del Mediterraneo e quindi luogo obbligato di transito di popoli, culture, merci, tradizioni, provenienti da diverse direzioni. La seconda prerogativa è stata la presenza dei due approdi naturali in uno Stretto attraversato sempre da forti correnti, con enormi masse d’acqua che ogni sei ore si riversano dal Tirreno allo Jonio e dallo Jonio al Tirreno, in quel confine tra i due Mari collocato nella parte più stretta dell’imbocco a Nord, la cui conformazione geologica è la chiara conferma dell’esistenza dell’istmo che aveva unito le due sponde: la Sella dello Stretto, a 80 metri di profondità. 

Lo stesso nome di Reggio, “Reghion”, evoca la “frattura”. Accanto a questi due elementi è stato sempre presente il terzo, costituito dalla condizione di confine tra due faglie terrestri che hanno originato tanti eventi sismici, tra cui gli ultimi di grande intensità sono stati quello del 1783 e quello catastrofico del 1908.

Attorno a questi tre caratteri permanenti si è sviluppata una serie infinita di eventi altalenanti. Si sono alternati periodi di progresso e di decadenza i cui destini sin dalle rispettive fondazioni (Zancle-Messina nel 734 a.C. e Reghion-Reggio nel 730 a.C.) sono stati generati dalle comunicazioni: per millenni i porti, dalla seconda metà dell’800 le ferrovie e oggi l’Aeroporto dello Stretto. 

I loro destini si divisero quando, durante il vice-regno spagnolo, Messina visse un periodo aureo grazie al Porto Franco e Reggio – con la perdita del Porto Naturale di Calamizzi per un bradisisma nel 1562 – conobbe la più grande fase di decadenza della sua storia. Sia prima che dopo il terremoto del 1783, il Porto Franco messinese consentì tuttavia la ricostruzione e lo sviluppo ulteriore. 

7.2. Reggio e Messina dopo il 1861

Uno strappo decisivo fu tuttavia inferto dalla caduta del Regno delle Due Sicilie nell’estate del 1860 e dal suo ingresso nel Regno d’Italia il 17 marzo 1861. Ne scaturì il crollo economico di Messina, provocato dal brusco passaggio dal protezionismo doganale borbonico (col privilegio del Porto Franco, che aveva attratto famiglie mercantili da diverse realtà dell’Europa, arricchendone l’economia e gli scambi culturali e rafforzandone il ruolo di centro propulsore dell’Area dello Stretto) al liberismo economico cavouriano, con il ridimensionamento in uno dei tanti porti italiani. Per dare l’idea del salasso che si abbatté sulla sua economia, basta ricordare che nel giro di soli tre anni dal 1860-61 Messina perse 33.000 posti di lavoro. Non fu quindi un caso che Giuseppe Mazzini fu per ben tre volte eletto Deputato nel 1866. 

Il leader repubblicano aveva perso la partita risorgimentale vinta dal suo acerrimo nemico Cavour ed era ancora costretto all’esilio londinese, soltanto perché una sua condanna a morte in contumacia emanata dal Tribunale di Genova nel 1859 era ritenuta ancora in vigore, nonostante la nascita del nuovo Regno d’Italia. Inoltre non era mai stato a Messina e i suoi seguaci in riva allo Stretto si contavano sulle dita di una mano. Venne eletto quindi come simbolo della protesta contro il nuovo Stato, la cui politica economica era stata impostata da Cavour come una conquista coloniale del Sud e della Sicilia e proiettata quindi su una logica di rapina delle risorse e di abbattimento delle punte produttive avanzate. E Messina e l’area dello Stretto erano tra quelle realtà evolute.

Seppure anch’essa colpita dalla politica di rapina del nuovo Stato, la resistenza di Reggio si rivelò maggiore. E fu dovuta a tre fattori: a) l’unicità mondiale del Bergamotto, principe mondiale degli agrumi, suo prodotto principale e unico; b) la costruzione del nuovo Porto artificiale negli anni Ottanta; c) il ruolo di terminale  ferroviario delle due ferrovie Tirrenica e Jonica. Ruolo che ebbe anche Messina, da cui si diramarono le linee ferroviarie dirette a Palermo e a Catania e Siracusa.

7.3. Lo spartiacque del 1908 e la ricostruzione 

Il catastrofico terremoto del 28 dicembre 1908 – il più distruttivo tra tanti che si erano abbattuti nell’Area dello Stretto – costituì uno spartiacque nella storia delle due città. Messina venne lentamente sostituita da Catania nella Sicilia Orientale e Reggio subì una serie di scippi di uffici regionali, trasferiti provvisoriamente a Catanzaro dalla città devastata ma tornati solo parzialmente per l’ostinata resistenza alla restituzione dopo la ricostruzione che in alcuni aspetti migliorò quella di Giovanbattista Mori che aveva rivoluzionato l’impianto urbanistico della città dopo il terremoto del 1783. Ne scaturì un lento ridimensionamento di Reggio e del suo ruolo primario regionale. 

Nel secondo dopoguerra sono continuate per alcuni decenni le fortune altalenanti delle due antiche città dello Stretto di Scilla e Cariddi. Messina  ha vissuto il suo canto del cigno con gli aliscafi e i Cantieri Navali Rodriguez e con l’incremento della flotta delle navi traghetto per il trasporto ferroviario. Dagli Anni Settanta il suo ruolo è andato sempre più scemando nella Sicilia Orientale a vantaggio di Catania, divenuta la Milano del Sud e nell’ultimo ventennio il terzo aeroporto italiano per traffico e passeggeri. Il penultimo colpo alla sua traballante economia è stata la chiusura dei Cantieri Navali Rodriquez nel 2013. L’ultimo è stato il declino – pilotato – dell’Aeroporto dello Stretto di Reggio, sottovalutato e trattato come un tema minore, piuttosto che prioritario, dalle élites dirigenti di entrambe le città nell’era del boom del trasporto aereo.

Il processo di ridimensionamento del ruolo di Reggio è stato rallentato e talora ribaltato da coraggiosi atti di resistenza (come le dimissioni del Consiglio Comunale di Reggio nel 1959, per protesta contro la mancata restituzione della Sezione di Corte d’Appello trasferita “provvisoriamente” a Catanzaro, in mezzo alle macerie del 1908) e alcune felici realizzazioni come la Fiera Agrumaria e il Parco Nazionale d’Aspromonte. 

7.4. …dalla Rivolta di Reggio del 1970-71 alla lenta spoliazione

L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario nel 1970 ha impresso un’accelerazione alla lenta azione di emarginazione di Reggio rispetto all’asse Cosenza-Catanzaro sempre più dominante. L’accordo di potere tra i maggiorenti delle  due città bruzie con l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro e dell’Università a Cosenza, con l’esclusione totale della più antica città della Calabria generò una corale protesta popolare scoppiata il 14 luglio 1970, protrattasi per oltre un anno nonostante l’isolamento mediatico e una pesante repressione e risolta nel 1971 con l’assegnazione a Reggio come Sede del Consiglio Regionale. 

Questa conclusione compromissoria fu vissuta negativamente da entrambe le parti. I reggini l’hanno interpretata come l’atto definitivo di una sconfitta epocale e definitiva, chiudendosi in un rancoroso e depressivo atteggiamento di rinuncia che ha originato un comportamento auto-distruttivo. →

Ulisse

Il mito Mediterraneo nel viaggio di Ulisse

di Giuseppe Romeo

C

os’è il Mediterraneo per l’Occidente o, anche, cos’è l’Occidente per il Mediterraneo? Due spazi e due culle di civiltà, due complementi dell’esperienza storica di un mondo di mezzo, collocato tra civiltà antiche che si affermavano e civiltà da scoprire. Tuttavia, entrambi essenziali nel confermare l’esistenza di un vincolo nella storia che nelle peripezie di Odisseo, l’Ulisse dei nostri ricordi, trova la sua centralità quasi fosse il primo eroe di un Occidente che lascia l’Olimpo nel suo confronto con il mondo. 

Se l’Odissea è il poema epico cui ogni erede della cultura pre-ellenistica affida le sue origini ad Omero prima che ad un Erodoto o dopo di un Tucidide, nelle avventure di Odisseo si risolvono i rigurgiti della costruzione di un’identità a metà strada tra continente e mare. Una sorta di alba delle relazioni politiche ed economiche che ha collocato il Mediterraneo, e ciò che sarebbe stato l’Occidente, al centro della storia del mondo. 

Tra guerre e alleanze, ragioni economiche e di egemonia dei mercati, oltre che di affermazioni di religiosità vicine ma lontane nello stesso tempo pur condividendo lo stesso Dio, il Mediterraneo ha rappresentato non solo un lago per le civiltà pre e post-ellenistiche, o pre e post-romaniche o delle scorribande saracene, poi delle flotte delle potenze moderne o delle vie terrestri per la conquista di un passaggio ad Oriente prima del Canale di Suez, ma un luogo di confronto/scontro per la conquista del potere marittimo e del potere continentale. Uno spazio umanizzato e culturalmente liquido, dove alla contaminazione culturale si è sostituita la sovrapposizione strategica di linee di supporto delle politiche di potenza soprattutto dalla fine dell’Ottocento ad oggi. 

Insomma, l’Occidente ellenistico, poi romano e ancora man mano europeo con l’ascesa delle monarchie e delle politiche di potenza ha affidato al mito il senso più profondo della ricerca, del viaggio, della fantasia, del sogno, della lucidità, dell’ironia, della maschera, dell’infinita capacità di metamorfosi. Ma se il mito ha permesso anche l’affermarsi di una politica egemone, pur costretto a dividerne le vicende con l’Islam ottomano, se ha cercato di affermare nel Novecento una versione idealizzata di una modernità votata ad affermare una supremacy occidentale – nonostante le guerre e le rocambolesche avventure coloniali – il mito dell’Occidente guida ed esportatore di valori ha permesso a culture in letargo di risvegliarsi, di manifestare il desiderio di vedersi riconosciuta una posizione preminente e un’importanza senza eguali nella formazione di una nuova via rispetto a quella europea. Ciò è valso per il mondo arabo e oggi per la Cina del nuovo impero, del nuovo millenarismo neoconfuciano e postmaoista. Dopo i successi e le crisi economiche degli ultimi anni del Novecento, la necessità di riorganizzare i rapporti politici e militari all’ombra dei mercati produttivi, il Mediterraneo cerca con difficoltà di ricollocarsi al centro delle relazioni mondiali nel tentativo di non veder spostare il centro di equilibrio e di interesse verso Oriente. 

Una necessità se non una condizione senza la quale non si potrebbe arginare, rideterminandone i fattori economici e di potenza, quello spostamento strategico verso Occidente che vede la Cina libera di intraprendere iniziative economiche nello spazio europeo come nel Nord Africa e negli Emirati. L’idea che la Nuova via della Seta si proponga come una strada di pura partnership è una illusoria visione di un modello cooperativo, quello messo in campo da Pechino, che usa l’apparente cooperazione per affermare una prospettiva di contrattazione competitiva nel governo dell’economia mondiale che spinge le risorse in surplus in quei mercati capaci di assorbirne le produzioni perché a ridotta competitività. 

In questo gioco a chi governerà gli scambi domani, il Mediterraneo, spazio di convergenza di interessi strategici rilevanti che vedrà il Vecchio e il Nuovo Mondo porsi alla resa dei conti, non può essere abbandonato a se stesso non solo dall’Europa continentale quanto dagli stessi Stati Uniti, questi ultimi troppo occupati a guardare cosa accadrà in Oriente dalla finestra del Pacifico piuttosto che da quella che dà sull’Atlantico.

Ecco, allora che l’idea che la contrattazione economica

si possa condurre in un altrove geopolitico lontano dall’Europa rende ogni sforzo pericolosamente inutile se Odisseo non riprenderà il largo nel tentativo di dominare i mari, leggasi mercati, di domani. 

D’altra parte, crisi o non crisi di vecchie autocrazie non più funzionali ai nuovi modelli di potere e di potenza, l’idea che il Mediterraneo possa essere un mercato di supporto alla crescita di economie diverse significherebbe svuotarlo di significato storico e di trasformarlo in una periferia del nuovo mondo, del nuovo ordine. 

Corridoi energetici, infrastrutture e produzioni nuovamente allocate nella regione offrirebbero al mondo nuove opportunità di equilibrio impedendo fughe in avanti di Pechino, mentre la Russia cerca di conquistare quanto possibile tra i nuovi due litiganti: Cina e Stati Uniti. 

Non si inventerebbe nulla che non si sia già stato sperimentato, ma senza crederci. La soluzione sulla quale ipotecare il futuro dell’Europa e degli Stati continentali esisteva e correva tra le acque del Mediterraneo e non solo. Dalle politiche commerciali delle convenzioni di Youndè – che attribuivano all’allora Comunità Europea una capacità di cooperazione e di sostegno dei Paesi del gruppo Acp (Africa,-Caraibi-Pacifico) – alla volontà di realizzare una comunità mediterranea nell’ambito di una possibile Conferenza di Sicurezza e Cooperazione nel Mediterraneo sino alla definizione della European Neighbourhood Policy. Una politica allargata ai proxies dell’Unione appena nata a Maastricht, inaugurata con la conferenza di Barcellona che si riunì il 27 e il 28 novembre 1995, rivisitata nel 2001, poi nel 2004, rivista dopo le primavere arabe e sino al 2015. Una politica con la quale si volevano mettere in comune capacità di guida concreta dell’economia del Mediterraneo venute meno, però, per effetto di scelte delocalistiche dei membri a maggior possibilità che hanno ridotto l’interesse verso il Mediterraneo prediligendo l’Oriente, considerato a buon mercato. 

La stessa Conferenza di Marsiglia del 3 e 4 novembre 2008 non aprì alcuna strada possibile per rivalutare un Mare che non è solo un mezzo, ma un ambiente, uno spazio economico ed umanizzato nel quale si confrontano Oriente ed Occidente. L’idea di coniugare obiettivi politici – con la creazione di una politica per garantire sicurezza e stabilità – con obiettivi economici che nel breve periodo avrebbero dovuto permettere l’istituzione di una zona di libero scambio già nel 2010 coinvolgendo i Paesi del Medio Oriente (EU- Middle East Free Trade Area Initiative, MEFTA) sembra essersi persa nelle nebbie di un Occidente troppo occupato a seguire il fascino di Circe piuttosto che prendere lezioni di disimpegno da Odisseo.

Oggi, l’idea di inaugurare una Politica europea verso il Mediterraneo non può non prevedere come e in che misura confrontarsi con la presenza della Cina non solo all’interno delle società che gestiscono le infrastrutturali, come il Porto del Pireo o le ambizioni su Trieste e Genova, ma nella gestione o condizionamento delle politiche economiche di molti Stati che si affacciano nel Mediterraneo o che ad esso ne sono a ridosso.   

Ma qualunque potrà essere il mondo all’indomani del regolamento di conti tra Cina e Stati Uniti, ogni nuova formula di equilibrio tornerà a cercare il suo centro al di là delle formule possibili di nuove città-stato interdipendenti, votate ad una self-governance, che si affacceranno in futuro. 

Perché, alla fine, il Mediterraneo è e rimane il miglior esempio, o laboratorio mai chiuso, di interconnessione economica, politica e culturale tra popoli costretti alla cooperazione nella diversità. Una ragione che l’Europa potrà cogliere se seguirà le tracce del suo Odisseo e la Cina, maga del momento, ne dovrà tenere conto e scendere a migliori condizioni. →

Populismo

Il populismo in Europa: rischio democratico

di Athanasia Andriopolou

Basta parlare di populismo: il popolo, anche in Europa, si sta ribellando contro le élite che lo hanno ingannato e impoverito”. Le parole di Noam Chomsky (2018) facevano sollevare qualche sopracciglio: l’illustre filosofo riconduceva la “rivolta” del popolo contro le istituzioni dominanti, dette élite, alla fisiologica reazione al trattamento punitivo riservato alla classe dei lavoratori. La linea di scontro si sarebbe delineata quando apparve chiaro che le ricchezze generate dal sollecitato accrescimento della produttività erano state poi redistribuite in modi diseguali, e che a capo dei processi decisionali vi erano tecnocrazie non elette (es. la Troika), che di fatto (ancora oggi ndr) neutralizzano, vanificano il potere ideologico-politico dei partiti. Frustrazione, paura e disillusione sono i sentimenti collettivi che portano alla ricerca di un efficace diversivo alla sordità dei governanti, e che funge da portavoce delle inascoltate proteste “popolari”. 

Se l’opinione di Chomsky può semplificare un fenomeno che sta mettendo in crisi le nostre democrazie costituzionali, in molti condividono il suo approccio al populismo politico quale conseguenza della ripetuta mancata presa di “cura” di problematiche che, invece, presentano tratti constanti e persistenti nelle nostre società. Difatti, il populismo non è fenomeno inaspettato e imprevedibile, ma è il risultato di un processo di “compattazione” organica in unità ideologica delle reazioni espresse democraticamente “dal basso” e ripetutamente rimaste inascoltate, sotto la guida di leader “carismatici”, dalle capacità comunicative. 

Il populismo non è una novità del nostro secolo: si annida nel corpo delle strutture democratiche, nutrendosi di crisi come quelle sistemiche che sta affrontando senza soluzione di continuità l’Europa (economico-finanziaria, migratoria-umanitaria, pandemica), che sfidano i sistemi di governabilità svelandone le falle. La “normalizzazione dello stato d’eccezione”, (Cantaro, 2021) e lo stato di “permacrisis” Europea (crisi permanente) sono condizioni ottimali per l’emergere di orientamenti populisti, poiché, come è stato spiegato molto meglio di quanto si fa in questa sede, “il populismo irrompe, nelle sue varie forme, quando entra in crisi il costituzionalismo politico che riusciva a integrare il popolo nell’ordinamento giuridico-sociale” (De Giovanni, 2019). 

Tante le definizioni quanti gli studi dedicati al populismo. Nel linguaggio corrente, il populista è un “anticonformista”, un anti-pluralista, tendenzialmente un antidemocratico, uno che è in perenne contrasto con il potere governante, di sinistra e/o di destra, di livello nazionale o europeo che sia. La “ricetta populista” prevede come presupposto fondamentale la scomposizione della società in due parti contrapposte: da una parte, il focus centrale è il “popolo”, a cui si attribuisce integralmente la priorità politica. Dall’altra parte, l’“antielitarismo”, cioè la rappresentazione dicotomica del campo sociopolitico tra Noi (gli emarginati, i perdenti, i molti, “il popolo”) e Loro (l’establishment, l’1%, l’élite, i pochi). A questi criteri di fondo si aggiunge la assolutizzazione del principio della sovranità popolare e la contemporanea insofferenza nei confronti di limiti e contropoteri, cioè in ultima analisi, della Costituzione. 

Bisogna fare dei chiarimenti: in realtà, il populismo è un fenomeno che accompagna il concetto stesso della democrazia, non solo nella terminologia ma anche negli stessi principi venutisi a sviluppare intorno al potere legittimante delle istituzioni, cioè la “sovranità popolare”. Il populismo di cui parliamo re-interpreta però la sovranità popolare in chiave integralista, proponendo una struttura di democrazia “eccessiva” dove il potere popolare è pressoché illimitato, poiché sganciato dai limiti costituzionali. Non si dovrebbe perciò confondere il populismo con una democrazia “radicale”, e neppure con le qualsivoglia mobilitazioni popolari in fase di rivendicazione di diritti contestati, come poteva esserlo stata la Rivoluzione francese. Invece, la negazione dei principi costituzionali produce effetti che mutano il populismo da potenziale “correttivo utile” alle democrazie, a “minaccia seria” contro le istituzioni democratiche.  

Sono molti a sostenere che si tratti de “la risposta antiliberale democratica ad un [neo] liberalismo antidemocratico” (Mudde, 2019). Il populismo strutturato è emerso quando, al contrario di quanto stipulato nel “contratto sociale” democratico-rappresentativo, il potere rappresentante ha rinunciato all’esercizio del potere politico, limitando di conseguenza anche il potere di partecipazione del popolo, lasciando che la tecnocrazia monopolizzi il governo delle decisioni sia su quali problemi poteva avere il popolo, ma anche su come risolverli, di fatto quindi facendo “calare dall’alto” le decisioni, come accade alle autocrazie. Una forma di oligarchizzazione (pratica oligarchica ndr) delle società europee che ha favorito l’instaurarsi di partiti populisti tracciando una frontiera politica tra ‘people’ ed ‘establishment’. I populisti di destra, incardinati sul vocabolario xenofobo, sono riusciti ad articolare le istanze ignorate dai partiti di centro perché incompatibili con il progetto neoliberista, mentre i populisti di sinistra si appellano alla lotta di classi, seppure solo di imitazione marxista, riflettendo nel “popolo” le categorie dei vulnerabili. 

Il populismo non è contro la idea stessa della democrazia, ma contro la democrazia rappresentativa, quella pluralista, il governo delle maggioranze, poiché esse non coincidono più con la “volontà popolare”. 

Questa teoria si accompagna alla convinzione che le istituzioni abbiano deviato dal loro mandato originario e servano ormai interessi diversi da quelli effettivi del popolo. L’affidamento che fa il popolo al potere politico si aspetta che possa risolvere “le due questioni fondamentali, quella sociale delle condizioni di vita del “popolo” e quella identitaria del radicamento etnico-culturale di una comunità, nel vuoto di ogni forma di mediazione e di connessione di sistema” (Scoditti, 2019). La prima aspettativa è stata delusa durante la crisi economica, la seconda è stata “tradita” prima con le politiche sul multiculturalismo, poi con la fallimentare governance della crisi dei rifugiati. Sicché non vi è margine, per i populisti, per l’abbandono della promessa fatta alla stipulazione del contratto sociale, nemmeno di fronte al collasso dello Stato stesso. Il popolo è legittimato a recedere dal contratto sociale e a riscattare la propria sovranità. Lo Stato per i populisti diventa Leviatano nel momento in cui il popolo perde fiducia nel suo giuramento. I populisti fanno ricondurre metodicamente ogni azione o progetto politico fallito all’alveo delle prove inconfutabili di “tradimento” delle promesse fatte, legittimando la sottrazione di lealtà verso le istituzioni democratiche. Ecco perché, per le sue caratteristiche ingannatrici, il populismo è considerato “la forma più pericolosa, e oggi diffusa, di patologia democratica, anche quando assume le forme più accattivanti di democrazia ‘dei sondaggi’ o addirittura ‘telematica’” (Spadaro, 2017). 

Infatti, il populismo contemporaneo è facilitato nei processi di manipolazione del consenso dall’uso dei digital media che offrono canali di disinformazione sistematica capaci di intorpidire il pensiero libero e critico. La Costituzione è ostacolo alla fomentazione populista dell’immaginario collettivo con archetipiche rappresentazioni di un ritorno della tirannia: lo Stato costituzionale democratico desidera e promuove la pluralità nell’informazione. 

Sarebbe ingenuo ritenere che l’opinione pubblica non abbia potere contro le istituzioni democratiche: la assuefazione dell’opinione pubblica può corrodere il corretto processo democratico e, nel tempo, minacciare di morte la democrazia costituzionale. Democrazie costituzionali forti o fragili che siano, la storia ricorda che tutte sono a rischio: si pensi all’Argentina di Peròn, o al Venezuela di Chávez, ed oggi alla Polonia ultracattolica di Kaczyński e Rydzyk, e all’Ungheria di Orban, ove si concludono discutibili revisioni costituzionali contro i tentativi di riallineamento con le tradizioni costituzionali comuni europee, e si lanciano attacchi aperti al sistema giudiziario costituzionale. 

Nella sua vera essenza, il populismo è un fenomeno degenerativo della originaria democrazia costituzionale, travisando per interessi “pubblici” e per bisogni del “demos” tutto ciò che di volta in volta risulta indigesto alla ideologia populista. In apparenza, lo Stato costituzionale non viene intaccato, ma viene corroso lentamente ed impercettibilmente dall’interno: si propugna lo stesso “mito” di fondazione democratico, ma senza il radicamento costituzionale, e privilegiando incerte forme di democrazia diretta (i.e. la frequente indizione di referendum popolari, oppure tramite proposte di votazione digitalizzata). L’attuale crisi politica offre la fragilità di sistema necessaria per il completamento della narrativa populista, mettendo a nudo la limitatezza dell’intermediazione partitica a salvaguardare il delicato equilibrio tra poteri (poteri di “diritto” – poteri di “politica” – poteri di “popolo”). La sostituzione della politica con la tecnocrazia e la normalizzazione del “governo della contingenza” (Castellani, Rico, 2017), hanno progressivamente sostituito l’idea dei partiti quali categorie ideologiche/politiche di appartenenza, lasciando il sistema costituzionale-democratico senza fondamento. Spogliare il diritto dalla componente politica equivale ad avere un diritto rigido ed inflessibile, capace di sfociare in tirannia, mentre, allo stesso momento, la società “spolitizzata” (o spoliticizzata ndr) diventa un insieme di individui titolari di sole pretese giuridiche. L’equilibrio tra tutti questi rapporti interconnessi è un compito affidato al disegno costituzionale, dove l’efficienza di ciascun elemento è legata al corretto funzionamento di altri. 

Mentre il ragguaglio logico tra populismo e democrazia è più immediato, lo stesso non è invece per la relazione tra populismo e costituzionalismo, soprattutto perché l’esame di tale relazione non si basa tanto su dati “scientifici” quanto ideologici. Bisogna rammentare, infatti, che le Costituzioni non sono un elenco di regole rigide e “vuote” (cioè “politicamente neutre”, diceva Spadaro, 2009), ma la serie di valori “politici” (intesi in senso ampio) che contengono è funzionale proprio al contenimento: la limitazione e il vincolo di qualsivoglia conformazione politica (potere costituito) nelle forme consolidate in cui si goda di legittimazione e di consenso popolare (la democrazia). Tra i compiti della Costituzione, cioè, c’è anche quello “politico”, di stabilire confini valoriali capaci di arginare l’arbitrio dei poteri politici. Anche il “consenso popolare”, come i poteri governanti, incontra limiti costituzionali, imposti della stessa “etica costituzionale” fatta di principi e valori sulle astratte voci di “maggioranza”. La Costituzione salvaguarda l’equilibrio tra tutti i poteri: l’idea che il popolo sia “al di sopra delle parti” e perfino al di sopra della lex legum, la Costituzione, non mette in discussione solo la legittimazione istituzionale ma anche le fondamenta dello stato costituzionale. Peraltro, il “consenso popolare” è legato allo stesso sistema democratico rappresentativo, tutte le volte che si compiono scelte a favore del bene “superiore comune”. Nelle democrazie ben funzionanti l’“etica costituzionale” e il bene superiore appaiono come “destino comune”. Il populismo fa una rivisitazione della costituzionalizzazione della gerarchia del sistema dei valori, mettendo in discussione la prevalenza del sistema di valori costituzionali stesso (C. Crouch, 2003). Eppure, al contrario delle idee di molti populisti, la prevalenza dei valori “etici” costituzionali sui poteri e sulle “maggioranze” (nel caso populista “plebiscitarie”), non equivale affatto a “mera democrazia”, ma al contrario, sono tali limitazioni che impediscono al sistema democratico di risultare arbitrario o abusivo. Detto diversamente, non vi è un parametro “obiettivo” migliore per controllare l’eccesso politico e per circoscrivere l’opportunismo delle maggioranze, fuorché quello su cui il popolo stesso vi fece affidamento, e cioè il disegno costituzionale. L’equivalenza “logica” della perdita della fiducia nelle istituzioni con la perdita della fiducia nel costituzionalismo democratico tout court è opera del populismo. Che il sistema di governo democratico non sia ineccepibile non è una novità, eppure è ancor oggi il sistema migliore che abbiamo. 

Come difendersi dal populismo? Intanto, c’è differenza tra le minacce populiste ideologiche più o meno latenti, e il populismo al governo. E questo perché, se è vero che il populismo può essere o non essere una sfida per la democrazia a seconda del suo carattere estremista, inclusivo o escludente, la scelta dell’istituzionalizzazione dell’antipopulismo, invece, apre la strada a finte varianti autoritarie nel presentarsi come l’unica forza in grado di sfidare palesemente uno status-quo diseguale, ingiusto e disconnesso. Ulteriormente, si trascura la varietà di critiche costruttive che talvolta il populismo fa sullo status di salute della democrazia. Insomma, se la crisi delle Costituzioni e del costituzionalismo è essenzialmente una questione di crisi di legittimazione, più che attivare strategie antipopuliste occorrerebbe che il potere politico (democratico) riconoscesse senza riserve il primato del diritto (costituzionale), riqualificando concettualmente (e non solo) la questione degli equilibri tra limiti e poteri posti alla sovranità ed alla democrazia. 

Bisogna ricordare che alla contrapposizione tra “popolo-élite” hanno contribuito gli stessi meccanismi di stampo neoliberista che ridussero il cittadino pensante in consumatore acritico. Il processo di “consumazione” delle menti e lo smantellamento del “simbolico” (spiega Dufour in The Art of Shrinking Heads, 2008), ha fatto sparire due soggetti della modernità, quello “kantiano” (soggetto critico e razionale), e quello “freudiano” (che costruiva certezze da prassi -nevrotiche- fondate su valori fissi). Il neoliberismo “flessibile” richiedeva invece un soggetto “vuoto”, precario e acritico, fluido e malleabile. Ancor prima di tentare, dunque, qualsiasi riforma sofisticata, bisogna forse andare alla radice e domandarsi seriamente quali scenari alternativi a quelli (deprimenti) neoliberali si possano prospettare al cittadino “post-moderno”.  

Un rimedio di immediato ed urgente contenimento del populismo dilagante sarebbero le azioni volte alla riqualificazione della cittadinanza, attraverso, ad esempio, una adeguata istruzione-educazione dei cittadini alla cittadinanza digitale, da accompagnarsi di pari passo con il rafforzamento della libertà di informazione e del pluralismo effettivo. L’interesse politico va ravvivato con i dovuti ausili per restituire valore al pensiero critico, riqualificare il corpo civico e risanare l’opinione pubblica. L’accento, cioè, non può che porsi sulla cittadinanza, quale istituzione che definisce il luogo di esercizio della sovranità popolare, ma determina anche il popolo come corpus di appartenenza politica partecipata. La perdita della fiducia è reciproca: recuperare la lealtà cittadina verso le istituzioni richiede che i vertici di potere rimettano al centro della soluzione di problemi complicatissimi anche quello della rivalutazione “reputazionale” dei popoli. →

La finanza nel post pandemia

Quale finanza ci sarà nel post-pandemia

di Massimiliano Ferrara e Bruno Antonio Pansera

All’interno del sistema finanziario globale si stanno susseguendo una molteplicità di mutamenti con ritmo incalzante. Una delle realtà che si sta sviluppando in maniera sempre più crescente, catalizzando l’attenzione di un numero sempre maggiore di operatori economici, è la finanza sostenibile. In poco tempo, essa si è trasformata da fenomeno di nicchia a fenomeno di massa, un mainstream con nuove prospettive evolutive.

Nell’ultimo periodo, il terreno fertile per affermare in modo definitivo questa tendenza è stato rappresentato dalla pandemia di COVID-19. La crisi che si è venuta a creare ha imposto ad aziende e organizzazioni di riprogettare il proprio modo di fare business, spingendole ad avviare una riflessione seria e quanto mai concreta sul concetto di sostenibilità. 

La finanza si è immediatamente conformata a ciò, accelerando lo sviluppo degli Investimenti Socialmente Responsabili, ad esempio mediante l’acquisizione di quote di fondi comuni di investimento sostenibili e responsabili, con specifico riferimento alla loro performance. Questi strumenti finanziari si pongono come obiettivo quello di creare per i risparmiatori opportunità di rendimento in un’ottica di medio-lungo periodo, premiando imprese e Stati attenti alle tematiche ambientali, sociali e di governance d’impresa.

L’intento è quello di trattare in maniera più approfondita il tema dell’Investimento Socialmente Responsabile attraverso la descrizione dei differenti approcci che caratterizzano la finanza sostenibile ed approfondendo una particolare strategia di investimento sostenibile, in rapida espansione, che è quella dell’impact investing, attraverso cui l’investitore, oltre ad ottenere un rendimento finanziario, ha il forte interesse a generare un impatto sociale ed ambientale positivo, concreto e misurabile. Fondamentale è anche precisare il concetto di rating di sostenibilità che certifica la solidità di un’impresa o di un fondo comune d’investimento dal punto di vista degli aspetti ambientali, sociali e di governo societario. 

Verso una economia sostenibile

Il termine sostenibilità, in ambito scientifico, è in costante espansione: il numero di definizioni e di modelli operativi cresce di pari passo con il rilievo che la sostenibilità assume nella vita quotidiana.

Come asserisce Enrico Giovannini, portavoce dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), nel suo recente libro L’utopia sostenibile:

“Abbiamo ormai un’evidenza scientifica consolidata dell’insostenibilità, sul piano non solo ambientale, ma anche su quello economico e sociale, del modello di sviluppo che abbiamo seguito nel corso degli ultimi due secoli.” 

L’Autore sostiene che i diversi fenomeni naturali e sociali che si sono manifestati negli ultimi decenni costituiscono un segnale evidente dell’instabilità del sistema socioeconomico attuale (si pensi al cambiamento climatico, alle migrazioni globali o all’aumento delle disuguaglianze) e la combinazione di questi shock di natura economica, sociale e ambientale richiederà nel prossimo futuro un radicale cambiamento del modo in cui analizzare e affrontare i problemi globali.

È, dunque, evidente che è necessario e non più procrastinabile un cambio di rotta nella direzione dello sviluppo sostenibile, la cui prima e più nota definizione è contenuta nel “Rapporto Brundtland” (conosciuto anche come Our Common Future), documento elaborato nel 1987 dalla Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED) in cui si afferma:

“Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

In sostanza, la sostenibilità ha come obiettivo quello di imporsi su un’economia lineare che punta al profitto senza tener conto dei danni che tale modello comporta per l’ambiente e di conseguenza per le generazioni future. Lo sfruttamento non razionale delle risorse, anche se giovevole, non può essere sostenuto indefinitamente e quindi il passaggio ad un’economia sostenibile è necessario per consentire la sopravvivenza del genere umano.

Sono tre i pilastri sui quali si fonda e si dirama la sostenibilità: economico, ambientale e sociale.

La sostenibilità economica consiste nella capacità di un sistema economico di dare vita ad una crescita stabile e continua degli indicatori economici. In questa dimensione, il principio cui fare riferimento è quello di contribuire allo sviluppo della società riducendone costi e rischi, migliorando la qualità di prodotti e servizi, senza aumentare, o preferibilmente riducendo, le possibili conseguenze negative.

La sostenibilità ambientale si concentra su un utilizzo delle risorse ambientali che rispetti i vincoli posti dalla capacità di rigenerazione e di assorbimento da parte dell’ecosistema.

Infine, la sostenibilità sociale pone l’attenzione sulla necessità di raggiungere un miglioramento delle condizioni di vita attraverso un maggiore accesso ai servizi sanitari, educativi, sociali e al lavoro, ma anche attraverso il riconoscimento e la valorizzazione del pluralismo culturale e delle tradizioni locali, nonché sulla necessità di un sostanziale cambiamento nello stile di vita dei consumatori, promuovendo comportamenti sociali e istituzionali sostenibili.

Il perseguimento di uno sviluppo sostenibile richiede un approccio integrato su tutte e tre queste dimensioni. Occorrono in aggiunta una presa di coscienza e il contributo concreto, in termini di scelte e iniziative, da parte di tutti i soggetti del sistema socioeconomico, a partire dagli Stati e dalle istituzioni in genere, le forze politiche, i mercati finanziari, le realtà aziendali, e via dicendo fino alle famiglie e al singolo cittadino.

In armonia con questa impostazione, che chiama in causa una molteplicità di attori, la sostenibilità può essere analizzata da diverse prospettive: quella politica, quella delle scienze ingegneristiche-ambientali, quella sociologica, quella macroeconomica, quella economico-aziendale.

Esaminando il concetto di sostenibilità partendo da quest’ultimo punto di vista è fondamentale porre l’attenzione su concetti quali ‘Responsabilità Sociale d’Impresa’ e ‘Investimenti Socialmente Responsabili’.

Corporate Social Responsibility

La Corporate Social Responsibility, CSR (Responsabilità Sociale d’Impresa, RSI) è, in senso generale, quella pratica che consiste nell’adozione volontaria di una politica aziendale che sappia armonizzare gli obiettivi economici con quelli sociali e ambientali del territorio di riferimento, in un’ottica di sostenibilità, ovvero nell’intento di preservare il patrimonio ambientale e sociale per le generazioni attuali e per quelle future. La CSR, nel concreto, riguarda quindi non solo la qualità, l’affidabilità e la sicurezza del prodotto, ma anche la salvaguardia dell’ambiente e della salute, il risparmio energetico, la correttezza dell’informazione pubblicitaria, ecc.

In tal senso, la CSR dà rilievo alla componente etica nell’attività economica, in quanto considera l’impresa come un soggetto moralmente responsabile che, mediante molteplici iniziative mirate e consapevoli, rappresenta una sorta di garante nei confronti di alcuni stakeholder, tra i quali gli azionisti, i dipendenti, i clienti, i fornitori, la comunità esterna con cui l’organizzazione interagisce e l’ambiente in cui viviamo.

Il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa, nato intorno alla metà del 1900 negli Stati Uniti d’America sulla base dell’idea che l’impresa non potesse mirare solo al profitto, avendo invece la responsabilità di impegnarsi anche per il contesto sociale in cui opera, si presta ancora oggi ad interpretazioni diverse, non esistendo una definizione univoca ed universalmente accettata e condivisa. 

Il contributo pioneristico, a cui si è soliti far risalire l’origine del concetto in esame, è quello di Bowen, il padre della CSR: Social responsibilities of the businessman del 1953. Come si evince dallo stesso titolo, però, si tratta di un lavoro centrato sulla sola responsabilità sociale dei businessmen; solo più tardi, infatti, si inizierà a parlare in letteratura di Responsabilità Sociale dell’Impresa.

Secondo Bowen: “La CSR fa riferimento agli obblighi degli uomini di affari di perseguire quelle politiche, prendere quelle decisioni, o seguire quelle linee di azione auspicabili in termini di obiettivi e valori della nostra società”. 

Quindi, gli uomini d’affari, per Bowen, non possiedono soltanto obblighi economici, come l’ottenimento di profitto, la crescita produttiva o la distribuzione di beni, ma anche sociali, incidendo in modo diretto anche sul contesto ambientale.

Se in un primo momento sono soltanto i manager ad essere considerati titolari di tali obblighi ‘morali’, nel giro di un ventennio tale titolarità viene estesa alla stessa impresa ed è infatti tra gli anni Sessanta e Settanta che si comincia ad affermare propriamente la locuzione Corporate Social Responsibility. 

Verso la fine degli anni Settanta, particolarmente illuminante, perché fondamento dei successivi approfondimenti sul tema, è il pensiero di A. B. Carroll che definisce la CSR come l’insieme di diverse responsabilità, descrivibile attraverso una piramide composta da quattro livelli: economico, legale, etico e filantropico.

Alla base della piramide è collocata la responsabilità economica, per sottolineare l’importanza che la sfera economica esercita sulle altre, producendo beni e generando profitti. Il livello successivo riguarda la responsabilità legale, che si identifica nel rispetto delle leggi e delle norme giuridiche da parte dell’impresa. Il terzo livello identifica la responsabilità etica, ossia i comportamenti e le norme, non codificati in leggi, che le imprese devono attuare e/o rispettare per soddisfare la società. Il vertice della piramide è rappresentato dalla responsabilità filantropica, identificabile con attività volontarie compiute dall’impresa a favore della società: essa comprende tutte le azioni che migliorano la qualità della vita ed accrescono il benessere della comunità.

Caratteristica fondamentale di questo modello è la fluidità: un’impresa che vuole essere socialmente responsabile deve attuare le quattro responsabilità in modo complementare e simultaneo. 

Tra le linee di pensiero più discusse in tale ambito vi è quella del premio Nobel per l’economia nel 1976 nonché fondatore della dottrina monetarista, Milton Friedman. Nel suo famosissimo articolo The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits, pubblicato nel 1970 dal New York Times, egli asserisce che le imprese devono focalizzarsi solo sul produrre profitto da distribuire sotto forma di dividendo agli azionisti. In altre parole, Friedman sostiene che l’unica responsabilità delle imprese è quella di utilizzare le proprie risorse in modo da aumentare i profitti e di conseguenza massimizzare il reddito dei conferenti di capitale di rischio (proprietari/azionisti), rispettando le leggi e le regole del contesto in cui esse operano, senza ricorrere a imbrogli o frodi.

In contrasto con questa posizione vi è la teoria degli stakeholder elaborata da Robert Edward Freeman e contenuta nella pubblicazione del 1984: Strategic Management: A Stakeholder Approach. Tale teoria mette al centro non solo i conferenti di capitale di rischio, ma anche tutti gli altri soggetti che influenzano o sono influenzati dall’attività dell’azienda, i cosiddetti stakeholder (i lavoratori, i fornitori, i clienti, le comunità locali). In particolare, Freeman sostiene che l’obiettivo dell’impresa è quello di soddisfare tutti i portatori di interesse e non solo i proprietari/azionisti e per fare ciò è necessario adottare iniziative su base volontaria che vadano oltre quelle obbligatorie per legge (attenzione per l’ambiente, miglioramento dei luoghi di lavoro e dell’atmosfera lavorativa, potenziamento della ricerca e dell’innovazione, miglioramento dei rapporti con le comunità locali etc.). 

È proprio sulla base di tale teoria che si sono innestate ulteriori e sempre più approfondite analisi sull’argomento.

Socially Responsible Investment e fattori ESG

Socially Responsible Investment (da cui l’acronimo SRI) è un’espressione generale con cui si intende qualsiasi tipo di processo di investimento che armonizzi gli obiettivi finanziari di un investitore con l’attenzione alle questioni ambientali, sociali e di governo societario. Queste tre dimensioni rappresentano gli ambiti attraverso cui un’impresa contribuisce alla sostenibilità dello sviluppo, proprio e della comunità in cui opera.

Nella funzione obiettivo dell’investitore socialmente responsabile compaiono dunque due insiemi di argomenti, quelli propriamente economico-finanziari (responsabilità, negoziabilità, sicurezza) e quelli attinenti alle questioni ambientali, sociali e di governo societario, la cosiddetta triade ESG. 

ESG è l’acronimo di Environmental, Social and Governance e si riferisce a tre fattori centrali nella misurazione della sostenibilità di un investimento:

Criteri Ambientali: riguardano l’impatto diretto o indiretto dell’attività aziendale sull’ambiente (emissioni di gas a effetto serra, efficienza energetica, prevenzione degli incidenti industriali, gestione delle risorse idriche, gestione dei rifiuti ecc.).

Criteri Sociali: riguardano l’impatto dell’attività aziendale sui suoi dipendenti, clienti, fornitori e sulla società civile in generale in riferimento a valori universali (diritti umani, norme internazionali del lavoro, lotta alla corruzione ecc.).

Governance d’impresa: riguarda il modo in cui un’azienda è diretta, amministrata e controllata e, in particolare, le relazioni con i suoi azionisti, il suo consiglio d’amministrazione e la sua direzione. 

Questo approccio deriva dal concetto di Triple Bottom Line, noto anche come “Persone, Pianeta e Profitti” (PPP), introdotto negli anni Novanta dallo scrittore, consulente aziendale e imprenditore John Elkington, secondo cui le aziende non dovrebbero concentrarsi solo sui profitti ma su ciascuna delle tre “P”. 

Nel 2006, le Nazioni Unite lanciano i cosiddetti Principles for Responsible Investment (o PRI) con l’intento di favorire la diffusione dell’investimento sostenibile e responsabile tra gli investitori istituzionali.

L’adesione ai PRI comporta il rispetto e l’applicazione dei seguenti principi:

incorporare parametri ambientali, sociali e di governance (ESG) nell’analisi finanziaria e nei processi di decisione riguardanti gli investimenti;

essere azionisti attivi e incorporare parametri ESG nelle politiche e pratiche di azionariato;

esigere la rendicontazione su parametri ESG da parte delle aziende oggetto di investimento;

promuovere l’accettazione e implementazione dei Principi nell’industria finanziaria;

collaborare per migliorare l’applicazione dei Principi;

rendicontare periodicamente sulle attività e progressi compiuti nell’applicazione dei Principi.

I Principi ad oggi sono stati sottoscritti da più di 1200 firmatari tra investitori istituzionali, società di gestione del risparmio e fornitori di servizi.

Più di recente, per poter meglio guidare l’impegno verso il raggiungimento di un pianeta più sostenibile, nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno formulato 17 obiettivi, i cosiddetti Sustainable Development Goals (SDGs), a loro volta articolati in 169 target. Si tratta della cosiddetta Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, così chiamata in quanto i 193 Paesi delle Nazioni Unite che la hanno sottoscritta si sono impegnati a raggiungere gli obiettivi da essa definiti entro il 2030. 

Gli SDGs sono ufficialmente entrati in vigore il 1° gennaio 2016 e, sebbene non siano legalmente vincolanti, rappresentano una fonte di ispirazione per i programmi e le politiche pubbliche di tutti i Paesi, a prescindere dal livello di sviluppo.

In ambito prettamente finanziario, gli SDGs sono un punto di riferimento per gli investitori SRI: essi, infatti, permettono ex-ante di individuare e selezionare i titoli, i progetti o i prodotti che contribuiscono allo sviluppo sostenibile, ed ex-post di misurare gli impatti negativi e/o positivi prodotti, fornendo preziose indicazioni su come orientare le scelte future. 

Nel 2020 il mondo ha assistito alla pandemia da COVID-19, un’epidemia, ancora in corso, diffusa a livello globale che ha portato a conseguenze sanitarie, sociali ed economiche disastrose. Il COVID-19 ha aumentato l’importanza del modo in cui le aziende operano e ha accelerato la crescente rilevanza delle tematiche ESG per gli investitori.

La gestione aziendale di temi quali i diritti umani, il benessere dei dipendenti e le relazioni con la comunità sono sotto esame, poiché le questioni che in passato sono state considerate lussi (ad esempio modelli di lavoro flessibili) sono diventate meccanismi critici di continuità aziendale nel blocco pandemico. Le azioni delle aziende potrebbero avere un impatto duraturo sulla loro reputazione e sulle relazioni future con clienti, fornitori e autorità di regolamentazione. Gli investitori stanno usando la loro influenza per guidare i cambiamenti comportamentali, e l’impegno degli azionisti dovrebbe rimanere una componente chiave degli investimenti sostenibili in futuro.

La sostenibilità è al centro del piano di ripresa per la maggior parte dei governi. Con i piani per ridurre le diseguaglianze sociali e investire in energie rinnovabili su larga scala, trasporti puliti, cibo sostenibile e accorciare e diversificare le catene di approvvigionamento globali, questo probabilmente sosterrà gli investimenti in corso sulle industrie sostenibili. Anche nelle politiche dell’Unione Europea, nel periodo post Covid tali temi stanno avendo un’attenzione molto alta. A tal riguardo si deve parlare del Next Generation EU: un piano per ricostruire l’Europa dopo la pandemia che consiste nello stanziamento di 1.800 miliardi di euro con l’obiettivo dichiarato di renderla più ecologica, digitale e resiliente. 

Classificazione degli approcci SRI

Gli Investimenti Sostenibili e Responsabili possono essere declinati secondo varie strategie, ognuna contraddistinta da specifici obiettivi e metodologie, che non si escludono a vicenda e che quindi possono essere applicate allo stesso portafoglio. 

Queste strategie, individuate nel 2012 dal Forum Europeo per gli Investimenti Sostenibili e Responsabili (European Sustainable Investment Forum, EUROSIF) sono sette:

1. Esclusione di titoli dall’universo investibile: questa strategia che è senza dubbio quella più datata anche se ancora oggi molto diffusa, consiste nell’esclusione di titoli o di settori dall’universo investibile sulla base di valori etici, principi o criteri stabiliti dall’investitore finale (asset owner) o dal gestore (asset manager). Tra i criteri più utilizzati ci sono le armi, la pornografia, il tabacco e i test su animali. 

Tali criteri sono naturalmente soggettivi e dipendono dalla politica di investimento: può quindi capitare che un settore sia sostenibile per un investitore o gestore e non lo sia per un altro. A tal riguardo, i settori dove si registra più difformità di valutazione sono ad esempio l’energia nucleare e la sperimentazione sugli animali.

2. Integrazione di fattori ESG nell’analisi finanziaria: si tratta di una strategia basata sull’inclusione esplicita e sistematica di fattori ESG di rischio o di opportunità nell’analisi finanziaria tradizionale. Nel processo generale di investimento vi è dunque una considerazione dichiarata di questioni ESG oltre che, naturalmente, di quelle tipicamente finanziarie.

Dunque, per quanto riguarda l’ambiente, lo stock picking (scelta dei titoli) delle aziende si concentra sulle aziende sensibili, tra le altre cose, ai processi di riduzione delle emissioni e di CO2, attente all’impatto ambientale dei loro processi produttivi, all’uso delle energie rinnovabili e al corretto smaltimento dei rifiuti. In ambito sociale, si prediligono le aziende che rispettano i diritti dei lavoratori, la tutela della salute, l’impegno a favore dell’inclusione e delle categorie svantaggiate. Vengono inoltre valutate positivamente le aziende attente alla formazione professionale e che guardano al benessere del dipendente con piani di welfare. Per quanto riguarda la governance, infine, sono tenuti in considerazione fattori quali la trasparenza amministrativa, le politiche di remunerazione del management, l’assenza di episodi di corruzione.

A tal proposito può essere rilevante considerare, solo per rimanere a casi di cronaca recenti, il grave danno prima d’immagine e reputazionale, e poi economico-finanziario, che ha coinvolto Facebook in merito ai dati personali di milioni di utenti ceduti alla società Cambridge Analytica: danno che ha avuto notevoli ripercussioni sull’andamento del titolo in borsa.

L’integrazione sistematica dei criteri ESG nella classica analisi di tipo finanziario, se condotta in modo serio e rigoroso, necessita di nuove e diverse informazioni riguardo la vita delle aziende e di nuove competenze in ambito di valutazione aziendale. Tali competenze possono essere implementate o essere acquistate da società terze (ad esempio, dalle agenzie di rating ESG): in ogni caso è un percorso che necessita di investimenti intellettuali e finanziari spesso non indifferenti. L’attenzione che l’investitore deve porre nelle proprie scelte d’investimento deve essere tesa a verificare che l’integrazione di fattori ESG, se fatta in modo non rigoroso, non risulti solo un’operazione di facciata e quindi di marketing per conferire un ‘aspetto’ sostenibile a un prodotto standardizzato (greenwashing). 

3. Selezione basata su standard: mediante tale strategia la selezione dei titoli avviene nel rispetto di regole o standard internazionali (per esempio quelle definite in sede OCSE, ONU o agenzie ONU tra cui ILO, UNEP, UNICEF, UNHCR, Global Compact). Di questa categoria fanno parte non solo approcci di esclusione ex ante basati su norme concernenti tematiche ESG, ma anche sovra/sottopesatura di titoli o engagement. 

4. Selezione Best in Class: a differenza della strategia di esclusione, in cui l’investitore non considera alcuni settori controversi nella costruzione del portafoglio, nella strategia Best in Class gli investitori scelgono le aziende virtuose in ogni settore economico, valutando quindi anche le aziende che appartengono a settori controversi ma che hanno intrapreso un percorso per arrivare a buone pratiche ESG. Attraverso tale strategia gli investitori selezionano titoli di emittenti relativamente migliori nel proprio settore sulle questioni ESG. Questa categoria comprende l’investimento in società che si distinguono per l’eccellenza sul piano delle performance sia ESG sia finanziarie, all’interno di un dato universo investibile.

Per esempio, un investitore, invece di escludere il settore dei combustibili fossili, può decidere di esaminare le imprese attive in tale ambito e scegliere di investire in quelle più attente agli aspetti di sostenibilità, con progetti di riconversione in ottica di transizione energetica.  Lo scopo di questa strategia, oltre ad avere un potenziale di investimento più ampio, è quello di entrare nel settore per cercare, attraverso il dialogo con l’azienda, di indurla a comportamenti più sostenibili.

5. Investimenti tematici: questa strategia consiste nell’investire in società che hanno come missione la promozione dello sviluppo sostenibile. Si selezionano quelle imprese che contribuiscono intrinsecamente alla soluzione di sfide ambientali o sociali, non si tratta quindi di un semplice approccio settoriale.

6. Engagement e azionariato attivo: si tratta di una strategia mediante la quale gli azionisti si impegnano in un dialogo strutturato e costante con il management della società in cui si investe.  Nell’ambito di tale strategia si deve differenziare tra soft engagement e hard engagement. Gli scopi di entrambe le attività sono molteplici: da una più corretta politica di remunerazione degli amministratori alla richiesta di più approfondite informazioni ad esempio sui rischi ambientali, ma in genere si può dire che attengono alla sfera della responsabilità sociale d’impresa.

Si parla di soft engagement quando l’azione degli investitori si limita al dialogo con l’azienda.

La strategia di hard engagement invece rientra nell’attività di azionariato attivo e vede gli investitori attivarsi nella promozione di pratiche socialmente responsabili, attraverso l’utilizzo dei diritti derivanti dal possesso di titoli di capitale di un’impresa. In particolare, tale attività si traduce sia in votazioni sui singoli temi all’ordine del giorno in ottica di responsabilità sociale, sia in richieste di integrazione dell’ordine del giorno delle assemblee per poter successivamente esprimere il voto. Nel dialogo con l’investitore o in assemblea, l’emittente può decidere di accogliere e/o assecondare le richieste pervenutegli oppure rifiutarle. Tale rifiuto però può avere conseguenze notevoli anche in termini di prezzo dell’azione. Il processo si può infatti concludere con il disinvestimento del fondo dall’emittente (exit) e con il pubblico dissenso (advocacy), nel quale il fondo oltre a disinvestire esprime pubblicamente il proprio dissenso. 

7. Investimento di impatto: con tale strategia si decide di effettuare investimenti progettati specificatamente per generare un impatto socio-ambientale positivo e misurabile, mantenendo un potenziale ritorno finanziario positivo. Si tratta di una modalità d’investimento relativamente nuova: non sono donazioni filantropiche, perché comunque il capitale rimane in capo all’investitore ed è atteso anche un qualche ritorno finanziario, tuttavia, l’obiettivo principale dell’operazione è il ritorno ambientale o sociale. Le caratteristiche salienti di questa strategia di investimento sono: l’intenzionalità dell’investitore di generare un impatto positivo dal punto di vista sociale e ambientale; il rendimento finanziario atteso, che può variare in funzione degli obiettivi dell’investitore ma, in ogni caso, deve prevedere almeno il rientro del capitale investito; l’eterogeneità dei rendimenti, che possono essere inferiori oppure in linea con quelli di mercato, e delle classi di attivo; la misurabilità dell’impatto sociale e ambientale (con diversi obiettivi e metodologie) e la rendicontazione degli impatti generati attraverso la pubblicazione di una reportistica dedicata (report d’impatto).

Il mercato degli investimenti ad impatto fornisce i capitali per affrontare le sfide più urgenti del pianeta in settori come l’agricoltura sostenibile, le energie rinnovabili, l’assistenza sanitaria, l’istruzione. Appare evidente che molti di questi obiettivi coincidono con i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’ONU e si può quindi affermare che proprio questi ultimi obiettivi sono il punto di riferimento per gli investimenti ad impatto.

Gli strumenti finanziari dell’impact investing

Nell’ambito delle strategie SRI un ruolo sempre più importante è rivestito dall’impact investing. Anche se non rappresenta la strategia più diffusa, l’impact investing presenta uno dei tassi di crescita più elevati: tra il 2014 e il 2016 il tasso di crescita è stato pari al 385% e tra il 2016 e il 2018 il tasso di crescita è stato pari al 79%.

Gli strumenti che consentono di investire con l’intento di generare un alto impatto sociale e ambientale si distinguono per:

tipologia di finanziamento erogato: azionario od obbligazionario o misto;

tipologia di soggetti finanziati: imprese quotate o non, investimenti in intermediari o diretti.

Gli strumenti finanziari più comuni sul mercato sono:

• Green bond;

• Social bond;

• Social Impact Bond;

• Fondi d’investimento;

• Crowdfunding.

Le dinamiche del mercato degli SRI

Il mercato degli investimenti sostenibili e responsabili sta registrando di anno in anno una crescita significativa a livello mondiale, europeo e italiano. A certificare un contagio virtuoso per gli investimenti sostenibili e responsabili è il rapporto biennale della Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), che riunisce le organizzazioni specializzate in finanza sostenibile di tutto il mondo. I dati relativi al rapporto Global Sustainable Investment Review 2018, l’ultimo ad essere elaborato, evidenziano infatti un ammontare complessivo di 30,7 trilioni di dollari di investimenti sostenibili nei cinque principali mercati: Europa, Stati Uniti, Canada, Giappone e Australia/Nuova Zelanda. Spicca soprattutto la crescita del 34% rispetto all’edizione precedente del documento (2016), quando la massa di investimenti sostenibili e responsabili si fermava a 22,9 trilioni di dollari.

La quota di mercato della finanza sostenibile cresce quasi in tutti i Paesi e gli investimenti responsabili ora riguardano una quota considerevole della finanza gestita professionalmente. La finanza sostenibile pesa il 18% in Giappone, il 50% in Canada, il 63% in Australia/Nuova Zelanda. L’Europa guida la classifica per valore degli asset sostenibili e responsabili gestiti con 14 trilioni di dollari, seguita a breve distanza dagli USA (12 trilioni). Ampi margini di crescita rimangono invece a Giappone (2,18 trilioni), Canada (1,69 trilioni) e Australia/Nuova Zelanda (734 miliardi).

Con riferimento alle strategie di investimento più diffuse, il primato appartiene alle strategie di esclusione (US$19.800 miliardi). Esse sono seguite dalle strategie di integrazione di parametri ESG (US$17.500 miliardi) e dalle strategie di engagement (US$9.800 miliardi). Da un confronto con i dati della precedente edizione, le strategie che crescono più rapidamente sono investimenti tematici (CAGR +92%) e le strategie best-in-class (CAGR +50%). Per quanto rappresenti ancora una quota ridotta di mercato, l’impact investing segna un aumento del 34% su base annuale e si attesta a US$ 444,3 miliardi.

Guardando in particolare alla situazione europea, a fronte di un incremento dei valori assoluti di patrimonio gestito in modo responsabile (+11% tra 2016 e 2018) per un totale di 14.075 miliardi di dollari (12.300 miliardi di euro), si assiste a una leggera flessione nelle quote di mercato: dal 53% al 49% del totale degli attivi gestiti in modo professionale. Un calo che il rapporto ipotizza possa essere dovuto a un «passaggio a norme e definizioni rigorose». Sul piano delle strategie adottate per applicare la sostenibilità, a dominare rimangono i criteri di esclusione che presiedono alla gestione di 9.500 miliardi di euro.

Conclusioni finali

La performance degli Investimenti Socialmente Responsabili è stata ed è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi di tutto il mondo. Il dubbio che la performance sia influenzata negativamente dalla particolare attenzione ai temi ambientali, sociali e di governo societario da parte dei fondi sostenibili, è un argomento molto attuale. In letteratura ci sono al riguardo numerose teorie discordanti: alcune associano ai fondi sostenibili un rendimento medio inferiore rispetto a quello che caratterizza i fondi tradizionali; altre, invece, dimostrano l’opposto, ovvero dimostrano una correlazione positiva tra condotta responsabile e performance economico-finanziaria.

In questo elaborato, l’attenzione è stata rivolta all’impatto che la crisi causata dalla pandemia di COVID-19 ha avuto sui fondi di investimento sostenibili e su quelli tradizionali.

L’emergenza sanitaria in atto ha posto in luce tutte le croniche debolezze del sistema sociale. La pandemia ci ha ricordato che le calamità naturali possono verificarsi in qualsiasi momento e che siamo più vulnerabili di quanto avremmo potuto pensare. In generale, la dolorosa esperienza di questo momento invita a riflettere su tante tematiche di attualità: oltre alle questioni legate all’ambiente e al riscaldamento globale, le decisioni delle imprese che riguardano i propri dipendenti, in particolare facendo riferimento alla salute e alla protezione sociale dei lavoratori nonché alle politiche di smartworking o di contrasto alla disoccupazione, hanno assunto crescente rilevanza. In questo contesto è praticamente impensabile sostenere che gli investitori non debbano tenere conto nelle decisioni di investimento degli impatti ambientali e sociali delle attività delle aziende. 

Pertanto, un approccio alla finanza socialmente responsabile assume un’importanza sempre più considerevole.

Infatti, in un periodo caratterizzato da forte crisi ed elevata volatilità, i fondi sostenibili si sono dimostrati in grado di gestire meglio il rischio e di ottenere rendimenti superiori rispetto a quelli tradizionali. Grazie a ciò, sempre più investitori si stanno convincendo del fatto che non esiste alcun tipo di penalizzazione quando si sceglie questo tipo di strumenti: lo dimostrano i dati relativi ai flussi annuali, i quali hanno raggiunto livelli record anche grazie a un aumento dell’offerta.

In conclusione, durante la fase di recessione, i fondi socialmente responsabili si sono rilevati più resilienti se messi a confronto con quelli tradizionali. Pertanto, integrare in maniera efficace i fattori ESG nel processo d’investimento, può migliorare i rendimenti aggiustati per il rischio. 

L’auspicio è che ciò consenta al trend che si sta osservando, relativamente all’elevata attenzione alle tematiche ESG, di continuare ad essere una priorità per gli investitori nonostante i problemi economici e finanziari che dovranno essere affrontati nei prossimi anni, in modo da ottenere segni chiari e concreti di un impatto sociale ed ambientale positivo. A tal riguardo sarà importantissimo per gli investitori instaurare un solido e attivo dialogo con le aziende e i governi per richiedere maggiore trasparenza e politiche più sostenibili. →

Inquinamento industriale

Disastri ambientali e povertà: un nesso davvero incredibile

di Roberto Cardaci

Uno degli aspetti dei disastri ambientali che viene scarsamente considerato e pressoché del tutto sottaciuto nel corso dei vertici tra i cosiddetti Grandi della Terra che dovrebbero avere cura del pianeta è l’effetto di ricaduta di alluvioni, tempeste, uragani, ondate di calore estreme, siccità, incendi, frane nel creare o aggravare la povertà dei cittadini dei Paesi nei quali si verificano. 

Secondo un rapporto dell’Organizzazione Metereologica Mondiale (WMO) e dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di disastri (UNDRR), negli ultimi 50 anni si è verificata un’impennata dei disastri naturali, causati dal cambiamento climatico e dagli eventi metereologici estremi.

Considerando i Paesi che si affacciano sull’Oceano Atlantico, in Sud America le inondazioni sono la causa del 59% dei disastri e il 77% dei conseguenti decessi che avvengono tra le popolazioni.

Gli Stati Uniti hanno avuto il 38% delle perdite economiche globali causate dai pericoli metereologici.In Europa si sono avuti 1.672 disastri ambientali, con il 38% dei danni causato da inondazioni e il 32% da tempeste.

Dalle analisi effettuate dai ricercatori del Progetto Titan, realizzato nell’ambito del Programma Europeo Espon, si rileva che nel lasso di tempo compreso tra il 1995 e il 2017, alluvioni, tempeste, siccità e terremoti hanno provocato eventi economici negativi per l’Unione europea provocando un calo della produzione interna che ha causato quasi 77 miliardi di euro di danni, di cui 43,5 dovuti direttamente ai disastri naturali e 33,4 collegati ai contesti economici delle aree colpite da calamità naturali.

I Paesi dell’area mediterranea più colpiti sono stati Italia, Francia e Spagna, ma se si considera il territorio continentale i danni hanno interessato anche Regno Unito, Irlanda, Danimarca.

Tempeste di vento e alluvioni, tra le calamità naturali prese in considerazione dai ricercatori, sono le responsabili dei disastri e conseguenti ricadute economiche più pesanti, avendo causato tra il 1981 e il 2010, il 76% dei danni stimati dal Programma.

Altri eventi atmosferici causa di disastri ambientali ed economici sono la siccità e i terremoti, responsabili ognuno per il 24%. 

Non sempre le regioni territoriali maggiormente colpite dalle calamità naturali soffrono le maggiori perdite economiche: infatti, per esempio, Francia e Germania sono le nazioni più colpite dalla siccità, ma i danni più consistenti causati dal fenomeno nei Paesi del Mediterraneo li hanno patiti Italia e Spagna su tutti.

Un avvertimento pressante sulla necessità di affrontare a livello internazionale in maniera efficace, strutturale e strategica il tema della tutela dell’ambiente viene proposto dall’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), che denuncia come perdita di biodiversità, degrado ambientale, cambiamenti climatici e pressione sulle risorse naturali potrebbero avere conseguenze devastanti e permanenti per la salute umana e i mezzi di sussistenza nell’area mediterranea per Spagna, Francia, Italia, Malta, Slovenia, Croazia, Montenegro, Albania, Grecia, Turchia, Cipro, Libano, Siria, Israele, Palestina, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto. 

In particolare, il Rapporto mette in luce che il 15% dei decessi che avvengono nell’area è causato da fattori ambientali.

Inoltre, l’inquinamento atmosferico, nel 2016, è stato responsabile della morte prematura di 228.000 donne e uomini.

A livello planetario, secondo l’Atlas of Mortality and Economic Losses from Weather, Climate and Water Estremes (1970-2019), presentato il 1° settembre 2021 da WMO e UNDRR, che disaggrega i dati per sottotipo e sub-sottotipo di ogni disastro, le condizioni meteorologiche, climatiche e idriche hanno costituito il 50% di tutti i disastri, il 45% di tutti i decessi segnalati – oltre il 91% si è verificato nei Paesi in via di sviluppo – e il 74% di tutte le perdite economiche. 

Nel cinquantennio analizzato vi sono stati 11.000 disastri attribuiti a condizioni meteorologiche, climatiche o idriche (in media uno al giorno), che hanno causato più di 2.000.000  di decessi (115 persone al giorno) e 3,64 trilioni di dollari di perdite economiche (202.000.000 milioni quotidianamente). 

Se si considerano i primi 10 disastri, quelli che hanno portato alle perdite umane più considerevoli sono stati la siccità, che ha causato 650.000 morti, le tempeste con 577.232, le inondazioni – 58.700 morti – e le temperature estreme, con 55.736.

Rispetto alle perdite economiche, sempre i primi 10 eventi riguardano le tempeste con una perdita di 521 miliardi di dollari e le inondazioni con 115 miliardi di dollari. 

Considerando l’ultimo ventennio, la situazione non è migliorata, se il 90% dei disastri avvenuti sul nostro pianeta è ancora stato causato da eventi meteorologici estremi, quali inondazioni, tempeste, ondate di calore.

Ai disastri generati dalla natura si aggiungono quelli causati dalla distruttività dell’attività umana, responsabile negli ultimi duecento anni di centinaia di eventi ambientali disastrosi che senza l’intervento dell’uomo si sarebbero verificati molto più sporadicamente. 

L’incuria dell’uomo rispetto all’ambiente in cui vive si è concretizzata nella sovrappopolazione, nell’inquinamento, nello sfruttamento delle risorse ittiche, nella distruzione degli habitat naturali, nella scarsissima o nulla governance dei processi industriali, nella deforestazione, nella modifica genetica e nella proliferazione incontrollata di prodotti chimici, nel riscaldamento globale e nella acidificazione degli Oceani, nel cambiamento climatico che comporta trasformazioni a lungo termine dei modelli meteorologici che definiscono i climi locali, regionali e globali della terra.

Per quanto riguarda l’impatto economico causato dai disastri ambientali generati dall’uomo, secondo un rapporto pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per la Riduzione del Rischio Disastri (UNISDR), le perdite economiche fra il 1998 e il 2017 sono aumentate del 151% rispetto al ventennio precedente, passando da 1.313 miliardi di dollari a 2.908 miliardi.

Inoltre, in base a uno studio condotto dal Dipartimento di Eccellenza EMbeDS (Economics and Management in the era of Data Science), dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Pennsylvania State University, l’impatto economico degli eventi estremi destruenti si è moltiplicato negli ultimi 50 anni, cosicché si ritiene che ogni anno un evento catastrofico che si collochi tra l’1% dei più dannosi costi circa 26 milioni di dollari in più dell’anno precedente, considerandolo al netto degli aumenti dati dall’evoluzione del reddito, dall’incremento della popolazione e dal crescere dei prezzi.

In Sud America i primi 10 disastri hanno causato il 60% delle vite totali perse (34.854) e il 38% delle perdite economiche (39,2 miliardi di dollari). 

Le inondazioni rappresentano il 90% degli eventi che hanno causato i disastri per numero di decessi e il 41% delle perdite economiche. 

Complessivamente, in un periodo di 50 anni, nella regione, le inondazioni hanno generato il maggior numero di disastri (59%), la maggior perdita di vite umane (77%) e la più alta perdita economica (58%)

Nell’ultimo cinquantennio, la regione ha annoverato il 18% dei disastri meteorologici, climatici e idrici, il 4% dei decessi che si sono verificati come conseguenze e il 45% delle perdite economiche associate in tutto il mondo, avendo come causa prevalente tempeste (54%) e inondazioni (31%). 

In particolare, nella regione, le tempeste sono state responsabili della più grande perdita di vite umane (71%) e perdite economiche (78%). 

Gli Stati Uniti sono la nazione che costituisce il 38% delle perdite economiche globali conseguenti alle condizioni meteorologiche, climatiche e ai pericoli acquatici.

L’area dei Paesi del Mediterraneo presenta uno specifico disastro ambientale causato dall’uomo.

Si tratta, come sostiene l’ultimo report dell’International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (IUCN) dell’inquinamento del Mar Mediterraneo causato dalla accumulazione di 1.178.000 tonnellate di plastica – 7% della quantità globale presente nel globo terracqueo – che fanno del Mare Nostrum uno dei più inquinati del pianeta.

I principali Paesi responsabili dell’inquinamento da plastica del Mediterraneo sono l’Egitto, che riversa nel Mediterraneo circa 74.000 tonnellate/anno, l’Italia: con circa 34.000 tonnellate/anno, e la Turchia con 24.000 tonnellate/anno.

Riguardo agli effetti di ricaduta, gli esperti di Plan Bleu attribuiscono a fattori ambientali prevenibili, partendo dalla riduzione dell’inquinamento, il 15% dei decessi tra gli abitanti dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo 

Viene stimata in 61.700.000 di euro ogni anno la perdita a causa dei rifiuti marini.

Vale la pena di ricordare quali sono stati in tutto il mondo i disastri ambientali piu’ rilevanti dovuti all’incuria dell’uomo che si sono avuti dall’inizio del terzo millennio:

Gennaio 2000 – Fuoriuscita di cianuro a Baia Mare, Romania, circa 100 ricoverati per avvelenamenti correlati al consumo di pesce contaminato con livelli di cianuro tra 300 e 700 volte superiori agli standard di inquinamento.

2002 – Inquinamento da intensificazione dell’allevamento di bestiame da latte, Nuova Zelanda.

Novembre 2005 – Esplosioni nell’impianto petrolchimico di Jilin City, Cina, perdono la vita 6 dipendenti e causano l’inquinamento del fiume Songhua con circa 100 tonnellate di sostanze contenenti nitrobenzene e benzene che causano leucemia e riduzione di globuli bianchi.

Febbraio 2006 – Frana di Leyte, Filippine, che uccide migliaia di persone tra cui 250 bambini. Più di 1.500 persone sono ancora oggi disperse.

Dicembre 2008 – Fuoriuscita di cenere di carbone nella Fossil Plant, Usa.

Aprile 2010 – Esplosione della British Petroleum Oil Spill, Golfo del Messico, muoiono126 persone, circa 60 milioni di barili di petrolio fuoriescono dal pozzo per oltre quattro mesi uccidendo uccelli, tartarughe marine, delfini e altri vertebrati e invertebrati marini.

Marzo 2011 – Incidente nucleare alla centrale di Fukushima, Giappone, muoiono 20.000 persone, altre 120.000 devono abbandonare le proprie case.

2015/2016 – La ‘fine’ della Grande Barriera Corallina, Australia

Maggio 2017 – Inondazioni del bacino del fiume Uruguay, (Uruguay), sfollate 3.500 persone e si calcolano perdite di centinaia di milioni di dollari.

Gennaio 2019 – Disastro della diga di Brumadinho, Brasile.

Novembre 2019 – Acqua alta a Venezia, Italia.

2019 – Incendi della Foresta Amazzonica.

Maggio 2020 – Fuoriuscita di combustibile diesel e lubrificanti nel fiume Ambarnaya, Siberia.

Luglio 2020 – Riversamento di olio combustibile da nave cargo, Mauritius.

Giugno 2021 – Caldo estremo in Canada, oltre 200 persone sono morte in relazione a questa eccezionale ondata di calore.

Luglio 2021 – Alluvioni in Germania e Belgio causano 184 morti in Germania e 37 in Belgio. 

Ancora in corso – Deposito di rifiuti elettronici a Guiyu, Cina, l’88% dei bambini avvelenati dal piombo, il tasso di aborti spontanei è più alto del normale.

Ancora in corso – Lenta morte del lago Victoria, Africa, 40 milioni di persone in Uganda, Kenya e Tanzania che dipendono dal lago per il sostentamento si trovano in grandi difficoltà per la propria sopravvivenza.

Come si evince dai dati fin qui riportati, i disastri ambientali non costituiscono solo la causa dell’aggravarsi delle condizioni economiche nei territori nazionali in cui si verificano, ma sono anche responsabili della ben più tragica contabilità delle vittime che non sopravvivono ai disastri e di coloro che, sopravvissuti, in numero considerevole porteranno i segni indelebili dati da condizioni di disabilità più o meno gravi e vivranno disagi psichici da trauma postraumatico che impediranno loro di proseguire serenamente la propria vita, privandoli di fatto della completa possibilità di realizzare progetti e aspettative che saranno loro negati in tutto o in parte.

Nel lasso di tempo preso in considerazione dal Rapporto WMO e UNDRR gli oltre 11.000 disastri ambientali hanno causato oltre 2.000.000 di morti. 

Secondo EM-DAT, il principale database internazionale che monitorizza i fenomeni catastrofici, negli ultimi vent’anni 6.457 catastrofi meteorologiche avvenute in tutto il mondo hanno causato 606.000 vittime, una media di circa 30.000 all’anno, con ulteriori 4,1 miliardi di persone ferite, senza tetto o bisognose di assistenza d’emergenza.

Se si considerano gli eventi atmosferici che hanno flagellato alcuni Paesi che si affacciano sull’Oceano Atlantico, in Sud America le inondazioni sono responsabili del 59% dei disastri e il 77% dei decessi avvenuti.

Nell’America settentrionale e centrale si sono verificati 74.839 morti, con un danno economico di 1.7 trilioni di dollari di danni, con gli Stati Uniti che hanno registrato il 38% delle perdite economiche globali a causa dei pericoli metereologici.

In Europa, dove si sono registrati i citati 1.672 eventi atmosferici disastrosi che hanno causato quasi 160.000 morti e danni economici per 476.5 miliardi di dollari, sebbene il 38% dei danni è stato causato da inondazioni e il 32% da tempeste, è il freddo ad aver causato il 93% dei morti, causando il decesso di 148.109 di donne e uomini. 

I disastri ambientali, sia dovuti ad eventi naturali che causati dall’uomo, costituiscono quello che si può definire un “ciclo destruente” delle vite dei sopravvissuti alle catastrofi.

Innanzi tutto, si assiste da parte loro all’abbandono delle abitazioni distrutte o danneggiate più o meno gravemente in cui vivevano e alla perdita di tutti gli averi che contenevano, gettando sul lastrico donne, uomini di ogni età e bambini.

Rispetto all’avere perduto in un solo istante persone care e ogni punto di riferimento di una vita di lavoro, di relazione affettiva e sociale, costellate di eventi quotidiani e di rapporti con i propri simili consueti, occorre considerare, oltre alla disperazione, al senso di distruzione della propria vita, alla voglia di abbandonarsi e la sofferenza umana, anche il disagio psicologico che può aggravarsi fino a causare anche patologie psichiatriche. 

Il “ciclo destruente” coinvolge anche le imprese di ogni dimensione e di ogni settore produttivo e di servizi spazzati via dalla furia degli elementi, con conseguente distruzione di contesti economici che davano occupazione a imprenditori e addetti.

Spenti i riflettori dei media e finita l’ondata emotiva che coinvolge nella tragedia collettiva durante la fase immediatamente successiva l’evento destruente, la condizione economica, umana e sociale di chi resta è di povertà assoluta.

Gli interventi a sostegno e finalizzati alla sussistenza immediata dei profughi, non sempre sufficienti a garantire una sopravvivenza decorosa e dignitosa per tutti i rifugiati, non permettono di riprendere una vita normale a chi, perso il lavoro, non può più concretizzare  i propri progetti di vita, dare vita ad aspettative, realizzare sogni, provvedere al presente dei figli per permettere loro di migliorare in futuro, non potendo più farli studiare e acquisire una formazione professionale che avrebbe permesso loro di presentarsi nel mercato del lavoro con  conoscenze e saperi utili per trovare occupazione, così da realizzare i desideri cullati nell’adolescenza o nella prima giovinezza, e che invece rischiano la disoccupazione sine die.

Infatti, la ricostruzione di un tessuto economico che permetta di riprendere una vita normale è resa difficile o perché i disastri ambientali hanno completamente distrutto un territorio, o perché le nuove condizioni rendono impossibile o estremamente difficile la ripresa di attività produttive, così da favorire l’occupazione e ridare prospettive agli abitanti.

La stessa ricostruzione, che potrebbe dare vita ad attività di edilizia che permettano la ripresa di imprenditori del settore e di occupare addetti necessari alla operatività è sovente difficile da attuare: esempi di zone abitate spazzate via da terremoti sono dolorosamente presenti in Italia, nella valle del Belice, in Irpinia come all’Aquila, zone distrutte e mai tornate ad essere ricostruite e ripopolate se non da profughi costretti per decenni a vivere in situazioni di precariato abitativo, a volte estremo, e di povertà assoluta data da sofferenza occupazionale per mancanza di ripresa delle attività produttive.

I disastri ambientali hanno quasi sempre un unico finale: contati i morti, superata l’ondata emotiva riguardo all’evento, fatti i calcoli dei danni economici, sostenuti i profughi a livelli di minima sussistenza per garantirne la sopravvivenza, quasi mai si ritorna a ripopolare gli habitat e i contesti economici sociali distrutti dalla natura o dalla incuria dell’uomo.

Tuttavia – e può sembrare paradossale – fin da ora è proprio dalla tutela di alcuni elementi di base dell’ambiente che si può dare vita a “circuiti virtuosi di cura e tutela collettiva degli ambienti”, prevendendo disastri ambientali naturali o causati dall’uomo e rilanciando contestualmente le economie locali.

Il modello di base di questo tipo di circuito risiede in una delle articolazioni della Green economy che nella sua semplicità – che non significa semplificazione del problema ambientale, ma l’opposto – sembra sfuggire come elemento sostanziale preminente per la tutela dell’ambiente ai cosiddetti “Grandi della Terra” in qualunque luogo del pianeta si radunino – l’ultimo summit è stato a Glasgow – nelle pletoriche ma quasi sempre inconcludenti riunioni per affrontare le tematiche dell’ambiente.

Si tratta della tutela dei suoli e delle acque, certamente non un affare lucroso per grandi gruppi imprenditoriali multinazionali o nazionali, ma che permetterebbe sia di tutelare l’ambiente che di creare un volano economico capace di offrire opportunità di occupazione in diversi settori.

È noto che le alluvioni che hanno funestato pressoché tutti i paesi che si affacciano sull’Oceano Atlantico e sul Mediterraneo sono dovuti al fatto che i suoli – soprattutto i boschi non più seguiti dai contadini a seguito del decremento del settore agricolo dovuto alla industrializzazione esasperata – non vengono più curati a volte da decenni, favorendo così “l’effetto plastica” dovuto all’accumularsi di vegetali non estirpati cosicché, in caso di piogge particolarmente copiose, dei veri e propri fiumi di acqua e fango si riversano nelle valli provocando frane e distruggendo tutto  ciò che incontrano nel loro procedere.

I fiumi, a loro volta, non oggetto di manutenzione di argini, greti e letti in cui l’acqua fluviale scorre, in caso di piogge che sempre più frequentemente assumono caratteristiche monsoniche in tutti i continenti, spesso esondano uscendo dagli argini in cui a volte la insipienza degli uomini li hanno costretti a deviare dal loro corso con cementificazioni che ne modificano l’andamento naturale.

Se la tutela dei suoli e delle acque venisse praticata costantemente con interventi strategici e strutturati che vedano impegnati sinergicamente imprenditori privati ed Enti Locali e Nazionali, gli effetti di ricaduta economica e sociale darebbero vita ai citati “circuiti virtuosi di cura e tutela collettiva degli ambienti” con risultati positivi a livello economico e della vita degli abitanti dei diversi distretti territoriali.

Infatti, innanzi tutto, tutelare i suoli e le acque significa prevenire i disastri ambientali, evitando soprattutto perdite di vite umane.

In questo senso, occorre interrogarsi sui costi sociali in caso di morti di donne, uomini, bambini, adolescenti: la perdita di imprenditori, professionisti, addetti costituisce una deprivazione della vita sociale di una nazione, se si considerano tutte le capacità perdute, le professionalità acquisite che avrebbero potuto ancora evolversi in creatività, sviluppo di idee interrotte nel lasso di tempo di un minuto.

Rispetto agli adulti, ma soprattutto ai giovani, le perdite di vite umane privano l’umanità di quanti potenziali, scienziati, ricercatori, studiosi, imprenditori capaci di innovazioni in grado di migliorare la condizione umana?

Quasi mai si calcolano gli effetti di ricaduta negativi in questi termini, ma si tratta di un esercizio che deve diventare oggetto di riflessione collettiva.

Inoltre, prevenendo anche i disastri causati dalla incuria umana di fiumi e terreni, si eviterebbero gli effetti destruenti sull’economia, sia salvaguardando i settori produttivi, sia evitando l’incremento della spesa pubblica finalizzata a riparare i guasti ambientali, a volte con scarsi e ininfluenti risultati, e ad assistere con sussidi a volte protratti sine die i profughi che ben difficilmente potranno tornare a lavorare, riprendendo la propria autonomia economica e una vita normale. 

Ma soprattutto, tutelare suoli e acque permetterebbe di creare occupazione.

Curare boschi, manutenere i corsi fluviali significa impiegare addetti di diverso profilo professionale, da ingegneri, architetti, lavoratori specializzati e non in un lavoro costante e continuativo, perché si tratta di operare professionalmente in settori naturali, che proprio per il ciclo continuativo della natura, richiedono una costante manutenzione perché non può esserci soluzione di continuità in settori della natura che non possono tollerare interruzione, pena l’insorgere di disastri ambientali con le relative conseguenze destruenti.

Il circuito virtuoso permette anche che intorno al nucleo strutturale della tutela di suoli e acque si creino degli ulteriori settori di intervento che favoriscano l’economia locale, creando ulteriore occupazione.

Infatti, gli operatori impegnati nella tutela richiedono inizialmente una formazione di base e successivi aggiornamenti professionali permanenti, interventi formativi che devono essere realizzati da enti di formazione pubblici e privati, creando quindi opportunità di lavoro per i formatori.

Inoltre, si stimolerebbero quei settori dell’economia locale o nazionale che producono macchine di movimentazione terra – trattori, camion, draghe, motozappe, ecc. – oltre ad attrezzi più semplici – picconi, vanghe, zappe, rastrelli, ecc. – da utilizzare da chi lavora nel settore, necessari per manutenere suoli e acque.

Infine, poiché tutelare l’ambiente necessita anche di costruire una cultura collettiva per educare gli abitanti di ogni età che popolano i territori a gestire un rapporto di salvaguardia  e di utilizzo corretto dell’ecosistema che costituisce il loro habitat naturale, si possono attivare interventi educativi da realizzare partendo dalle scuole di ogni ordine e grado, organizzando anche eventi pubblici per tutta la popolazione che trattino della necessità e delle modalità di tutelare l’ambiente e di fruire in modo adeguato delle risorse e delle bellezze che i territori offrono.

I percorsi educativi da realizzare nelle scuole e gli eventi richiedono anche la presenza di docenti, educatori, formatori, animatori culturali e sociali: altre opportunità di occupazione che incrementano l’economia locale e nazionale.

Perseguire su scala territoriale di tutte le nazioni una politica di tutela dei suoli e delle acque significa creare le condizioni di prevenire i disastri naturali, e ovviamente, se la cultura della tutela ambientale diventasse diffusa e finalizzata a insegnare buone pratiche a tutti gli abitanti dei territori, anche quelli causati dall’uomo (si pensi alla plastica che inquina il Mediterraneo!).

Realizzare un modello di intervento a salvaguardia e tutela dell’ambiente che a pieno titolo presenta tutte le caratteristiche di una economia sostenibile e legata all’ecosistema, coinvolgendo gli abitanti dei territori mediante una cultura diffusa e condivisa nell’utilizzo responsabile e armonico dell’habitat naturale in cui vivono, costituisce la cura collettiva di un patrimonio naturale che richiede la tutela da parte di tutti, e che da tutti può essere fruito per godere di un benessere psicofisico collettivo.

La stessa economia ne avrebbe un beneficio, con l’incremento dei PIL delle diverse nazioni e con la riduzione della disoccupazione.

È evidente che dovrebbe essere compito dei decisori politici dare vita a interventi strategici e strutturali che tengano conto di questo settore della Green economy che, pur richiedendo investimenti, potrebbe favorire lo sviluppo dell’economia reale, tanto necessario in questa fase dove tutti i Paesi del mondo devono contrastare e superare la povertà di milioni di cittadini gettati in condizione di estremo disagio dalla pandemia. →

Inquinamento atmosferico

Sos Clima: la sindrome di Greta-Cassandra

di Mauro Alvisi e Antonietta Malito

La Terra è in pericolo e con essa l’intera umanità. I repentini cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova la capacità di adattamento di tutti gli esseri viventi. 

L’impatto del riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, il progressivo innalzamento del livello del mare, i numerosi e devastanti incendi boschivi, gli eventi metereologici estremi (siccità, alluvioni, uragani, ondate di calore) sono fenomeni a cui assistiamo sempre più spesso, che determinano ovunque danni economici, distruzione e morte. Ma la cosa più preoccupante è che – sulla base di ciò che sostengono gli esperti – ci si aspetta possano diventare ancora più intensi e frequenti nei prossimi anni. 

Non c’è più tempo da perdere. Servono interventi urgenti e mirati per salvare il salvabile. Intervenire prima che sia troppo tardi è un imperativo ma anche un dovere a cui nessuno può più sottrarsi. 

La Cop26 di Glasgow

I cambiamenti climatici e i possibili rimedi da attuare per limitare le conseguenze sull’ambiente e sulle persone sono stati i temi al centro della recente Conferenza delle Nazioni Unite, nota come Cop26 (ovvero la 26esima “Conferenza delle parti”), che si è svolta a Glasgow (Regno Unito, Scozia) dal 31 ottobre al 12 novembre. 

Il vertice internazionale, fortemente influenzato dalla pressione di milioni di giovani che si sono mobilitati nelle strade e nelle piazze di mezzo mondo, ha ospitato oltre 30mila delegati, tra cui i rappresentanti di 197 Paesi, esperti climatici e attivisti. La Conferenza è servita ai grandi della Terra per discutere, negoziare e raggiungere quei compromessi indispensabili per porre in essere le misure e i sistemi di controllo necessari per produrre, nel medio-lungo termine, il cambiamento di cui il pianeta ha bisogno per sopravvivere. 

Dalla Conferenza sul clima più importante di sempre, sono emersi, in particolare, tre risultati di rilievo: mantenere la temperatura entro 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali; ridurre gradualmente l’uso del carbone come fonte energetica e arrestare i sussidi economici e finanziari ai combustibili fossili; gli Stati che il prossimo anno non avranno ancora aggiornato i propri piani nazionali di riduzione delle emissioni, in linea con l’obiettivo suddetto, dovranno presentarli alla Cop27 d’Egitto, consentendo a tutto il mondo di allinearsi. 

Il Centro per la resilenza ai disastri ambientali dell’Università di Twente

Presso l’Università di Twente (Paesi Bassi) opera una struttura all’avanguardia nel campo della resilienza ai disastri ambientali: il Center for Disaster Resilience (Cdr), che riunisce le competenze di un’ampia gamma di ricercatori, dipartimenti e discipline interconnessi all’interno della Facoltà Itc (Scienze della Geo-informazione e osservazione della Terra) della città di Enschele. 

L’importante Centro è stato inaugurato il 28 ottobre scorso dalla principessa dei Paesi Bassi, Margriet Francisca, zia dell’attuale sovrano Guglielmo Alessandro, e da suo marito, il professor Pieter van Vollenhoven. L’inaugurazione, che ha coinciso con i 70 anni dalla fondazione dell’Itc, ha rappresentato l’occasione ideale per discutere sulla collaborazione e la ricerca interdisciplinare, con l’obiettivo di sviluppare e rafforzare la resilienza globale di fronte ai disastri. 

Il Centro dell’Università di Twente rappresenta il culmine dell’esperienza raggiunta dalla Facoltà Itc fino a oggi nel campo della resilienza ai disastri, delle cause alla base degli stessi e del loro impatto sulla società. Esso mira a facilitare lo scambio di conoscenze sviluppate presso le università e altri partner, come il Royal Netherlands Meteorological Institute (Knmi), la Croce Rossa e le organizzazioni locali, consentendo loro di operare in modo più efficace ed efficiente. Obiettivo del Cdr è prevenire che le persone restino vittime di questi disastri e contribuire a garantire che condizioni meteorologiche più estreme non conducano a disastri più estremi. All’inaugurazione erano presenti la professoressa Irene Manzella, che ha assunto l’incarico di coordinatrice del Cdr, e il professore Maarten van Aalst, detentore della cattedra Princess Margriet Climate and Disaster Resilience presso l’Università di Twente e direttore del Centro internazionale per il clima della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, che ha partecipato alla Cop26 di Glasgow. 

Irene Manzella  l’italiana alla guida del Cdr

Irene Manzella

È novarese la coordinatrice del Centro per la resilienza ai disastri ambientali (Cdr) dell’Università olandese di Twente. Prima di assumere questo importante incarico, la scienziata, che è anche professore associato in Ingegneria Geotecnica per la gestione del rischio, ha insegnato per quattro anni presso l’Università inglese di Plymouth. 

Laureata in Ingegneria per l’ambiente e il territorio al Politecnico di Milano, Irene Manzella ha conseguito nello stesso ateneo un Master di alta formazione in “Riqualificazione insediativa per la cooperazione e lo sviluppo”, a cui è seguito un dottorato di ricerca presso l’Ècole Polytechnique Fédérale di Losanna (Svizzera). La ricercatrice ha lavorato negli anni sulla teoria per migliorare i modelli e la resilienza ai disastri, realizzando alcuni prototipi in laboratorio (per frane, vulcani, inondazioni). 

La sua lunga esperienza accademica l’ha portata in giro per il mondo. È stata in Nicaragua, Francia, Germania, Svizzera, Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Gran Bretagna. Da qualche anno, ormai, a seguirla nei suoi sempre più frequenti trasferimenti, ci sono suo marito Stefano e i due figli di 9 e 4 anni. 

Da una sua idea è nato un video di sensibilizzazione ai disastri ambientali, realizzato con l’aiuto dell’artista Carey Marks. Il filmato, disponibile sul sito del Centro per la resilienza ai disastri ambientali, oltre a presentare la struttura, si propone di spiegare in maniera semplice, attraverso una serie di disegni, di cosa essa si occupi nello specifico. Oggi, Irene Manzella guida il Centro con grande impegno e passione, inseguendo il sogno di rendere la Terra un posto migliore.

Maarten van Aalst è uno dei più noti climatologi al mondo. Il professor Maarten van Aalst dirige il Centro internazionale per il clima della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa e detiene la cattedra Princess Margriet in Climate and Disaster Resilience, istituita nel 2018 presso la Facoltà di Scienze della Geo-informazione e osservazione della Terra (Itc) dell’Università di Twente. Van Aalst ricopre incarichi aggiunti presso l’Istituto di ricerca internazionale per il clima e la società della Columbia University e presso l’University College di Londra. È coordinatore dell’autore principale presso l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici, e fa parte del Gruppo consultivo scientifico e tecnico dell’Undrr (United Nations Office for Disaster Risk), del Leadership Group dell’UN Climate Resilience Initiative A2R (Gruppo direttivo dell’iniziativa di resilienza climatica delle Nazioni Unite), del gruppo direttivo dell’alleanza Partners for Resilience, e comitati consultivi di diversi programmi di ricerca internazionali sulla gestione del rischio climatico. Dopo aver completato un dottorato di ricerca in Scienze atmosferiche presso l’Università di Utrecht (Paesi Bassi) e il Max Planck Institute di Magonza (Germania), ha lavorato sull’adattamento ai cambiamenti climatici e sulla gestione del rischio di catastrofi con organizzazioni come la Banca mondiale, le banche di sviluppo regionale, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo svilippo economico), l’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) e diversi governi. 

– Lei è alla guida di questo importante Centro presso l’Università olandese di Twente. Di cosa si occupa questa prestigiosa struttura e quali obiettivi si prefigge di realizzare?

«Il Centro per la resilienza ai disastri (Cdr) della Facoltà di Geo-informazione e osservazione della Terra (Itc) dell’Università di Twente è un Centro di nuova costituzione, sorto per consentire di coordinare i lavori e gli sforzi in corso e già in atto presso l’Istituzione, per rafforzare e migliorare ulteriormente la collaborazione all’interno dell’università e in tutto il mondo e, soprattutto, per sviluppare una visione innovativa, originale e fresca, interdisciplinare e partecipativa della resilienza ai disastri, in quanto non vi è alcuna riduzione del rischio senza un approccio olistico, sinergico, focalizzato e comunitario».

– In un mondo orientato verso l’iperspecializzazione, auspicare la consapevolezza di un sapere e di un agire unitario in difesa dell’ambiente è ancora possibile o è mera utopia?

«È assolutamente possibile, se c’è un interesse e uno sforzo comuni. È una questione di scala dimensionale. Lavorare su diversi livelli è possibile e necessario. Abbiamo bisogno di una visione più specializzata e, diciamo, su micro-scala, per comprendere i fenomeni, poi abbiamo bisogno di ridurre lo zoom da quella per vedere le implicazioni che tale comprensione ha sul funzionamento generale dei nostri sistemi e società troppo complicati e iperconnessi. Quindi, non credo che uno escluda l’altro, possiamo continuare ad avere un approccio iperspecializzato insieme ad azioni unificate e più olistiche su scala più ampia».

– Da una sua idea è nato un video di sensibilizzazione ambientale che si propone, attraverso l’arte, di realizzare un mondo più a misura d’uomo. Perché ha pensato al disegno come allo strumento ideale per “educare” la coscienza collettiva? 

«Come esseri umani comprendiamo meglio usando tutti i nostri sensi. Credo che l’arte sia il modo migliore per svegliarne la maggior parte di essi e quindi conservare concetti e memorizzarli. Credo anche che parli ai nostri cuori non solo alle nostre menti e possa essere un potente strumento per comunicare e raggiungere le comunità. Essa può avere un impatto molto maggiore nell’aumentare la consapevolezza diffusa, che è un elemento chiave nella preparazione alle catastrofi e quindi nella resilienza. L’arte è anche la chiave per sviluppare l’approccio partecipativo di cui abbiamo bisogno, per attuare davvero un serio cambiamento. Ho intenzione di continuare a collaborare molto con gli artisti nel mio ruolo di coordinatrice del Centro e anche nella mia ricerca».

– Pensando alle minacce che incombono sull’ambiente, quali sono, secondo lei, le opportunità su cui occorre necessariamente puntare in uno scenario di breve-medio periodo?

«In termini di opportunità, dobbiamo sfruttare tutti i nuovi sviluppi tecnologici e scientifici per trovare soluzioni alternative e più efficaci ai disastri. L’Itc, con la sua vasta esperienza in Geo-informazione, è estremamente ben posizionato per farlo, ecco perché ho accettato questo ruolo, anche se significa trasferire tutta la mia famiglia in un altro Paese e molte altre sfide personali e professionali. Attraverso le proprie comunità di laureati ed ex allievi in tutto il mondo e la loro collaborazione anche con la rete 4TU ci sono le basi per costruire davvero qualcosa di utile, che possa guidare un vero cambiamento».

– Quali sono, invece, le emergenze da affrontare nell’immediato? 

«C’è molto su cui lavorare, c’è l’urgente necessità di intraprendere azioni concrete e a breve termine per ridurre l’aumento della temperatura e gli effetti dei cambiamenti climatici, compresi gli impatti sempre crescenti dei disastri. Difficile dire quali siano quelle più urgenti, la situazione è talmente critica che dobbiamo lavorare su tanti fronti diversi per poter vedere qualche cambiamento, per piegare un po’ quelle curve ripide. Sicuramente i governi devono impegnarsi concretamente per raggiungere le emissioni nette pari a zero, ma come scienziati dobbiamo rivedere i nostri modelli per adattarli ai mutevoli periodi di ritorno, all’alta intensità imprevista e agli eventi a cascata, integrando le tecnologie digitali per migliorare i sistemi di allerta precoce. Dobbiamo considerare i rischi sistemici, la vulnerabilità in tutti i suoi diversi aspetti e dobbiamo lavorare insieme alle comunità, agli stakeholder, alle autorità locali e nazionali per rendere attuabili le azioni di gestione del rischio».

– Esiste già un modello di resilienza che sia in grado di influenzare le decisioni strategiche dei governi e la società civile?

«Esistono diversi modelli per la resilienza, il problema è la loro attuale, effettiva implementazione e applicazione. C’è un’analisi costi-benefici alla base delle decisioni prese dai governi e dalle società. Il problema è riuscire a vedere benefici e costi non solo a breve termine ma anche a lungo termine. Anche se ormai il lungo periodo si sta accorciando sempre di più e la crisi climatica sta sensibilizzando progressivamente la popolazione. Quindi, c’è la speranza che almeno questo porti, infine, ad azioni più concrete».

– I disastri climatici sono sempre più frequenti in ogni parte del mondo. Pensa che dobbiamo abituarci a convivere con questi eventi estremi? 

«No, assolutamente no, se abituarsi significa non fare il possibile per affrontare la crisi climatica e agire concretamente. Sicuramente questi eventi stanno diventando più comuni, ma dobbiamo fare il possibile per ridurne il rischio ed evitare che aumentino ancora di più».

– La diffusione di fake news, in casi come la pandemia da coronavirus, ha generato ovunque grande confusione e panico. Oggi, a conclusione di Cop26, quali responsabilità ha l’informazione e quali effetti l’infodemia potrebbe avere sulla resilienza ai disastri ambientali?

«Non sono un’esperta degli effetti dell’infodemia, ma credo che in questo ci sia una doppia componente. Sicuramente la comunicazione e l’utilizzo dei social media hanno ampiamente diffuso la conoscenza delle problematiche sollevate dalla Cop26, suscitando in parallelo un flusso di fake news che può portare all’inerzia di una parte della popolazione. Per quanto riguarda il covid, c’è stata un’ampia diffusione di fake news ma anche di informazioni importanti e utili. Per i disastri è necessario istruirsi su come distinguere tra notizie vere e false e comprendere l’impatto nefasto che quelle false potrebbero avere sugli sforzi e sui progressi che stiamo facendo per aumentare la nostra resilienza».

– Come inquadrare il fenomeno mediatico dell’attivista Greta Thunberg nell’ambito della resilienza consapevole ai disastri? Le prossime generazioni saranno quelle di una intelligenza collettiva cooperante per il bene pubblico? 

«La mia esperienza personale con le mie nipoti adolescenti è che sono molto più consapevoli della situazione e delle sfide che stiamo affrontando ora con il Friday for Future e l’importanza data alla protesta di Greta Thunberg a livello globale. Possono identificarsi con lei e condividere le sue preoccupazioni e la sua battaglia. 

La vedo come una voce positiva e necessaria come sono quelle di altri giovani attivisti per il clima come Vanessa Nakate, Xiuhtezcatl Martinez, Leah Namugerwa, Eyal Weintraub, David Wicker e molti altri. Queste voci sono importanti per le nuove generazioni e altrettanto, se non di più, per quelle passate. Dobbiamo ascoltarle con attenzione, abbiamo molto da imparare da loro».

– Professor van Aalst, lei che è reduce dalla Conferenza di Glasgow, come valuta questo evento? Cosa ha rappresentato per il mondo? Lo considera di portata scientifica e ricaduta strategica sufficiente per i decision maker del pianeta?

Marteen Van Alst

«La Cop26 è stata “un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto” allo stesso tempo. I responsabili politici hanno ascoltato il contributo scientifico offerto dall’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) e hanno riaffermato l’importanza di evitare che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi, a far data dall’era preindustriale. Hanno anche riconosciuto che il clima sta già cambiando e che occorre fare di più per adattarsi e gestire i rischi crescenti. Tuttavia, mentre i Paesi hanno concordato alcuni passi avanti positivi, il pacchetto di misure sancito e stipulato non è sufficiente per raggiungere effettivamente quell’obiettivo di temperatura o per sostenere l’adattamento con il giusto livello di propositi, specialmente nei Paesi più poveri».

– Quali risultati ha prodotto Cop26? Quali saranno, secondo lei, le conseguenze delle scelte e delle non scelte che ne sono derivate?

«Il risultato principale potrebbe essere il riconoscimento globale che ci troviamo in un mondo che cambia pericolosamente e pertanto dobbiamo aumentare la nostra aspirazione sia nella riduzione dei gas serra, sia nel fronteggiare i crescenti rischi che già affrontiamo oggi. A mio avviso, le misure concrete su cui i Paesi hanno concordato una linea di conduzione non sono ancora pienamente all’altezza delle stesse aspettative. Tuttavia, gli Stati presenti hanno deciso di aumentare nuovamente gli obiettivi concreti per il prossimo anno. Questo proposito, la promessa di Glasgow, ora deve essere portata avanti in tutto il mondo, nei singoli Paesi, aziende, città e famiglie. La mia unica preoccupazione è che mentre stiamo facendo progressi, non li stiamo facendo abbastanza velocemente. Il problema sta peggiorando più celermente di quanto le nostre soluzioni stiano migliorando…».

– Potrebbe abbozzarci una breve visione dei best and worst scenarios che si prospettano in questo decennio 2020-2030 per i cambiamenti climatici e i disastri ambientali?

«Il cambiamento climatico che dovremo affrontare nel prossimo decennio è quasi interamente determinato dalle emissioni passate. Quello che facciamo per le emissioni è principalmente importante per i cambiamenti climatici che affronteremo più avanti. Quindi, indipendentemente da ciò che facciamo sulle emissioni di gas serra, per il prossimo decennio affronteremo eventi più estremi di quelli a cui siamo stati abituati in passato, inclusi eventi catastrofici senza precedenti, come l’ondata di caldo canadese della scorsa estate, ma anche le inondazioni tedesche, gli incendi mediterranei, australiani e americani, gli uragani più frequenti, ecc. Inoltre, ci aspettiamo più eventi composti, come quando si verificano forti piogge in aree appena colpite da incendi, che le rendono più vulnerabili a inondazioni e frane. In particolare, nei Paesi a più basso Pil, i rischi stanno aumentando anche a causa dei modelli di sviluppo, ad esempio la crescita delle città lungo le coste o alla foce dei grandi fiumi, con insediamenti informali spesso nelle aree più soggette a inondazioni. Quindi, il grande fattore che determina gli scenari di cui si tratta, è come gestiremo il rischio. Se siamo meglio preparati, possiamo affrontare molte delle sfide che ci vengono incontro. Ma se le disuguaglianze persistono e se ignoriamo il modo in cui aumentano i rischi, assisteremo a perdite e danni sempre più rilevanti». 

– La politica e la diplomazia occidentale e orientale, anche tra singoli stati, si trovano spesso tra opposte fazioni sui temi ambientali. Questo vale anche per la scienza?

«Nel Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) siamo molto fortunati a lavorare con una comunità globale di scienziati, con autori dell’attuale sesto rapporto di valutazione, di oltre 90 Stati in tutti i continenti e provenienti dai Paesi più ricchi e più poveri. Sebbene spesso portiamo prospettive complementari agli stessi problemi, condividiamo principalmente una comprensione molto chiara e comune del rischio che l’umanità deve affrontare e delle soluzioni che possono aiutare ad affrontarlo».

– Potrebbe elencarci cinque irrinunciabili mosse da attuare per la salvezza del pianeta, nel breve-medio periodo? 

1. «La prima priorità è semplice ma anche enorme: ridurre le emissioni di gas serra molto rapidamente. Ciò significa un immane sforzo in tutti i settori e in tutti i Paesi. I governi devono definire le politiche, ma le aziende e gli individui dovranno fare delle scelte. 

2. La seconda priorità riguarda l’adattamento. Dobbiamo investire nella nostra capacità di prosperare in un clima che cambia, analizzare i cambiamenti che stanno arrivando e prepararci a condizioni mutevoli. 

3. La terza priorità è aumentare la nostra capacità di affrontare shock e sorprese. È inevitabile che affronteremo più frequentemente condizioni senza precedenti e non possiamo stare al sicuro solo con un’ingegneria o un’agricoltura più intelligenti. Dobbiamo essere pronti ad affrontare tali condizioni quando si presenteranno. E questo spesso include un’attenzione speciale ai gruppi più vulnerabili della società. Per esempio, nella mia terra, i Paesi Bassi, bisogna pianificare ora la cura degli anziani durante un’ondata di caldo (che non era un pericolo di cui ci preoccupavamo prima del cambiamento climatico). Su scala globale significa anche sostenere i Paesi più poveri nell’affrontare le crescenti perdite e i danni che stanno subendo in un clima che cambia. 

Questo mi porta alle ultime due priorità, che sono davvero azioni abilitanti. 

4. La quarta priorità riguarda la solidarietà. Possiamo affrontare questo problema solo se riconosciamo che le spalle più forti devono sopportare il carico più pesante. Per inciso, i Paesi più ricchi (e le persone), che dovrebbero sostenere i più poveri, sono anche quelli con le più alte emissioni storiche, quindi sento che hanno anche la responsabilità morale di fornire quel sostegno alle persone più povere che hanno contribuito di meno al degrado ambientale, stanno soffrendo di più e hanno una minore capacità di affrontare i rischi crescenti. 

5. La priorità finale è aumentare la consapevolezza tra la popolazione generale, in particolare nella prossima generazione, sia sul rischio del cambiamento climatico, sia anche sul loro ruolo nel trovare soluzioni – come elettori, come consumatori e come individui nel proprio comportamento. Questo è anche un compito chiave per gli scienziati: lavorare insieme ai giovani, ai giornalisti, agli artisti, ai responsabili politici, alle aziende, alle autorità locali, ecc. Dobbiamo fare meglio nel comunicare chiaramente i rischi e nel dare potere alle soluzioni». 

Ricercatori e scienziati internazionali in ambito ambientale e del cambiamento climatico in atto, del calibro di Irene e Maarten, si arrovellano le menti nel controbilanciare scientificamente il piano inclinato dalle scellerate pseudo-decisioni dei capi di stato e di governo, come quelle, in tutta disarmante evidenza, insufficienti e palliative, seppur degne di minima significanza, scaturite da summit sul climate changing di Glasgow. Nel tentativo di mettere di nuovo in bolla il parallasse del futuro vivere e sopravvivere sulla terra. Nel mentre, si susseguono le dichiarazioni di moderata ma strombazzata soddisfazione autocompiacente di chi era in Scozia per prendere decisioni ultimative, che come in un sequel televisivo o cinematografico rimandano all’episodio successivo annunciandone l’epilogo. E fuori dal palazzo, per le strade del mondo imperversano gli inascoltati moniti di Greta Thunberg e di tante giovani figure che denunciano come il re sia ormai nudo e che occorra porre fine al bla bla time. Già, Greta. L’eponimo moderno della contestazione verde. La trasformazione della protesta della Beat Generation in quella della Bit Generation, social mediatica e poco incline a mediare. 

Greta, da molti potenti considerata una sorta di Cassandra del terzo millennio. Sì, stiamo parlando di quella Cassandra, figlia di Ecuba e Priamo Re di Troia, sacerdotessa del Tempio di Apollo, da cui ebbe in dono la facoltà della preveggenza. Una figura oracolare che, prevedendo e annunciando terribili sventure era invisa a molti, per lo più ai potenti. La stessa che aveva avvertito i concittadini troiani che nell’incavo del cavallo di legno, introdotto in città, si celavano i soldati greci, rimanendo inascoltata. Occorre rifletterci. Quella di Cassandra è anche una sindrome patologica dell’annuncio apocalittico che, per effetto dell’inferenza di un’altra sindrome, quella di Pigmalione, finisce spesso con l’autoavverarsi delle profezie. È sempre denotativa degli scenari di crisi culturale o di passaggi epocali dell’umanità. Annunciare la catastrofe, spesso più che prevenirla, la rende ineluttabile. Un problema che investe le dinamiche della comunicazione e dell’organizzazione reticolare dell’odierno villaggio globale. La frustrazione per l’incapacità di agire con efficace tempestività ha bisogno di una rappresentazione, di una liturgia simbolica, divergente ed etero riferita, rispetto ai decisori (non decisori), responsabili (non responsabili). Così che i media premiando infinitamente l’icona di Greta finiscono per decretarne la rimozione paranoica della sua funzione simbolica. Con l’acuirsi dei disastri ambientali, frutto di un comportamento noncurante estremo, la razza umana intera perde la capacità di esperire un’abilità cosmogonica di avvistamento di un orizzonte euforico. Innesco di una conseguente psicodemia, fattori di primaria inibizione della resilienza. La previsione del comune destino e degli scenari a tendere sembra essere, ogni giorno di più, l’obiettivo primario della scienza e della tecnologia. Previsione e prevenzione vanno a sovrapporsi. Va indagata la possibilità che la prevenzione possa anche deragliare nel business della prevenzione. Si prevedono gli scenari sociali, le catastrofi ambientali, gli indici delle borse, l’audience e i trend di consumo, le elezioni (con gli exit poll), l’orientamento scolastico e professionale (test attitudinali), le probabilità di longevità (esame Dna). In tutto questo comunque, bisogna ammetterlo, vi è la certa e apprezzabile avventura umana evolutiva della scienza. Le abilità prognostiche e predittive sono qualcosa di esaltante e funzionale al genere umano. Posto che non collidano contro l’iceberg visionario, immaginativo del mondo interiore. Il paradosso della resilienza alla catastrofe è quello che se non ridiamo al mondo una weltanschauung non saremo poi in grado di attivare i sensori razionali e scientifici della coscienza e della consapevolezza umana. Un cammino tortuoso dove le cose visibili richiedono un substrato limbico reggente invisibile e misterico, sapienziale, in una parola simbolico. Visibilia ex invisibilibus. La semantica della resilienza, che va a rappresentare un destino di nuovo euforico. E allora salvarsi finisce per dipendere da una macchina delle decisioni dotata di sette veri key buttons:

1. Apocalypse Now. Predizione disforica dei probabili rischi a breve;

2. New Euphoric Horizon. Visione di un orizzonte euforico possibile;

3. Cooperative Common Intelligence and Cure. Sostituzione diacronica della noncuranza con una concuranza collettiva (intelligenza collettiva cooperante) mosse N°1 e N° 4 del prof. Maarten van Aalst;

4. Decision Support System. Supporto scientifico alle decisioni chiave;

5. Resilience Training Programme. Allenamento della resilienza. Ovvero educazione e rieducazione alla percezione del rischio, all’adattamento alle mutazioni ambientali (mosse N° 2 e N° 5 del prof. Maarten van Aalst);

6. Fake Tracking. Determinare e riconoscere il vero e distinguerlo dal verosimile nella babele informativa (tema caro alla prof. Irene Manzella); 

7. Long instead of  Short Decisions. Generare idee e atti a lunga scadenza. →