Etica degli affari

Etica degli affari, tra reputazione e legalità

di Erika Del Fiacco

L’uomo virtuoso può essere identificato in colui che nel fare le proprie valutazioni o scelte personali, economico-sociali, politiche, riconosce e accetta l’ordine razionale necessario del mondo moderno. 

Storicamente, i filosofi delle dottrine etiche (Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro, ma anche Kant, Fichte, Hegel), hanno sempre volto la loro attenzione a due obiettivi differenti, spesso ricercati congiuntamente. Da un lato si sono proposti di raccomandare l’insieme dei valori più adeguati al comportamento morale dell’uomo; dall’altro, hanno mirato allo studio del comportamento speculativo dell’uomo tentando di ricondurre il comportamento morale dell’essere umano all’etica.

Nell’epoca antica come in quella moderna, gli impulsi umani determinano le scelte che è possibile fare tenendo fede a un comportamento virtuoso che consente di dominare gli impulsi sensibili secondo il criterio del giusto mezzo (ragione, coscienza, virtù etiche quali, coraggio, temperanza, liberalità, mansuetudine ecc.), con esclusione degli estremi viziosi, dominati dalle passioni. 

Ecco che, con l’accentuarsi degli interessi civili, gli obblighi morali non possono essere riconducibili all’esclusivo piacere e liberalità umana del singolo. Nasce dunque, quell’imposizione della forza statuale che, attraverso le norme comportamentali, mira al concretizzarsi della pace sociale e del benessere condiviso.

Nella tradizione e nella civiltà del mondo Mediterraneo e Atlantico, si è sempre riposta particolare attenzione alle relazioni intercorrenti tra i campi dell’etica e dell’economia. Se da un lato l’economia appare quel settore nel quale l’operatore economico agisce esclusivamente per il proprio tornaconto o profitto d’impresa, determinando per il consumatore l’utilità nel ricevere sul mercato servizi e prodotti; dall’altro lato le imprese e il mercato consentono di assicurare l’allocazione efficiente delle risorse, con le conseguenti considerazioni etiche in materia ridistributiva. Nella logica di ispirazione libertarista e contrattualista il benessere della collettività è l’obiettivo garantito con la soddisfazione delle preferenze degli individui che, in primis, riguardano i beni di consumo; mentre, l’obiettivo del sistema economico è l’accrescimento del benessere dei suoi membri, nonché il potenziamento dell’interazione tra gli attori e gli operatori, nell’ottica dello sviluppo economico.

Ed ecco che, molti di questi aspetti esaminati, intervengono nella cosiddetta responsabilità etico-sociale delle imprese. Sempre più di frequente, gli attori economici, pur interessati al proprio profitto, senza badare a costi e/o a risparmi, adottano procedure di controllo interno, come per esempio la due diligence, l’internal auditing e la compliance aziendale per conformarsi a protocolli, norme, regolamenti, guides lines di buone pratiche, nonché adottano codici etici e di condotta per rispondere alle richieste etico-morali mosse dalla società civile e che coinvolgono interessi anche di chi nella veste di consumatore, investitore, ambientalista ecc. non è interessato al tornaconto. 

Di qui, il Business Ethics, l’etica degli affari o anche l’etica applicata alle attività economiche. Branca della più ampia disciplina della filosofia morale che, in forma di etica applicata, esamina il mondo del business nelle sue due componenti: l’una empirica e pratica fatta di tecniche mutuate dalla finanza e dal marketing d’impresa; l’altra, teorico-filosofica. Entrambe si prefiggono di studiare, in modo congiunto, il comportamento del mondo impresa-finanza, con lo sguardo volto ai principi liberali dell’economia e dell’autonomia individuale. 

Già durante la crisi economica degli anni ’70, negli USA, il Business Ethics si faceva strada, come branca autonoma. Solo negli anni ’80 però, l’etica degli affari raggiunge l’Europa Occidentale. Nel 1984, in Olanda, presso la School of Business dell’Università di Nijenrode e Breukelen, viene istituita la prima cattedra di Etica degli Affari mentre, nel ‘94 veniva pubblicato il primo manuale intitolato Business Ethics. A European Approch.

Oggi, l’insegnamento dell’etica degli affari s’è diffuso in molti Paesi, europei ed extra europei. In Italia, non senza difficoltà, l’insegnamento dell’etica e della filosofia dell’impresa è stato inserito in corsi accademici di scienze giuridiche, economiche, politiche e sociali, ma ancora c’è da fare tanta strada.

In generale, l’etica degli affari può essere ricondotta ai comportamenti di individui (manager, lavoratori, imprenditori) e alle pratiche delle imprese che dovrebbero o non dovrebbero essere adottate, sino alla valutazione del governo e delle politiche pubbliche in relazione al mercato, sia a livello nazionale che internazionale.

L’internazionalizzazione delle imprese e la globalizzazione dei mercati finanziari hanno avuto un forte impatto in ordine all’etica degli affari, tanto da venirsi a ideare il concetto di internazionalizzazione dell’etica degli affari o International Business Ethics.

Le differenze culturali, non è possibile negarlo, creano spesso differenze morali irrisolvibili tra società. Ecco allora che l’Etica Internazionale degli Affari garantirebbe uno standard comportamentale minimo di riferimento per i rapporti economici internazionali rilevanti e qualificanti come, per esempio: la non violazione dei diritti umani, il non sfruttamento del lavoro minorile, l’eliminazione di ogni discriminazione sul lavoro, fino all’abrogazione di ogni disparità di genere, la libertà di impresa, di associazione e di contrattazione, la tutela del mercato e dei consumatori, l’antifrode, lo sviluppo eco-sostenibile, la tutela ambientale ecc.

Insomma, l’etica degli affari può essere definita come l’insieme di norme morali e di regole di condotta che permettono di condurre gli affari in maniera universalmente riconosciuta come trasparente, onesta e corretta.

L’etica degli affari non può che essere direttamente proporzionale allo sviluppo dei valori della società moderna. Ciò equivale a dire che, per recuperare i principi morali basilari del mondo del lavoro, occorre potenziare i valori sociali su cui la società civile e la democrazia sono fondati. I due aspetti sono ben collegati e connessi tra loro.

Le aziende quindi, sempre più di frequente, si autoimpongono procedure e controlli interni che consentano di arginare l’assenza di etica, addirittura esternalizzando a consulenti e professionisti, per lo più avvocati d’impresa, lo studio di best practices che possano riportare nei binari della morale la realtà d’impresa. 

Oggi e ormai da anni, molte aziende si conformano a buone pratiche come per esempio in termini di Tutela della Privacy e di GDPR le quali, in modo sempre più preminente, interessano e coinvolgono non solo gli attori principali del mercato come le imprese bensì, anche chi si relaziona con esse e cioè, fornitori, clienti, professionisti, consulenti, finanziatori, stakeholders, P.A., enti pubblici e privati, associazioni di categoria, il terzo settore, ecc. La finalità della Tutela della Privacy è quella di garantire che i dati personali di chi entra in contatto con la realtà d’impresa vengano gestiti, raccolti, modificati, conservati nel rispetto delle prescrizioni sancite dal Regolamento UE 2016/679, con riconoscimento a vantaggio del singolo di poter esercitare i diritti ex artt. 15-22. In caso di violazione, l’interessato che vede violato il proprio diritto alla Privacy può presentare reclamo al Garante della Privacy ex art. 58 del Regolamento richiamato, con la conseguente istruttoria preliminare e l’eventuale procedimento amministrativo che, può sfociare nell’adozione dei provvedimenti di tutela sanzionatori. Avverso la decisione del Garante è possibile fare ricorso ex art. 143 e 152 del Codice (D.Lgs. n. 196/2003 e ss.mm.ii.) e del Regolamento. Di recente, il Regolamento UE 2016/679 ha introdotto il GDPR (General Data Protection Regulation) che ha rafforzato la tutela dei dati sensibili delle persone fisiche, anche rispetto alla circolazione dei dati personali dentro e fuori il territorio Europeo. Importante, la figura ad hoc del Data Protection Officer (D.P.O.) o Responsabile della Protezione dei Dati. Una nuova figura aziendale, solitamente di estrazione tecnico-legale, con potere esecutivo che affianca titolari, addetti e responsabili del trattamento affinché informino, gestiscano, sorveglino i dati e conservino i rischi seguendo le linee guida del Regolamento Europeo, peraltro facendo anche da tramite tra l’azienda e l’autorità. Anche il protocollo in tema di antiriciclaggio ex D.Lgs. 125/2019 può essere considerato uno strumento utile per enti, organizzazioni, P.A., imprese per curare un aspetto strategico: il normale funzionamento dei sistemi di pagamento. La finalità della normativa è quella di conservare e ridurre i potenziali rischi aziendali connessi all’incertezza della lecita provenienza dei flussi finanziari che possono trovare fonte in attività criminali e terroristiche. Quindi, di conseguenza, in caso di comportamenti omissivi che non consentano l’identificazione e il successivo eventuale recupero dei flussi di illecita provenienza, è opportuno sia adottata la sanzione di natura amministrativa, punitiva ai sensi e per gli effetti dell’art. 58.

Ad oggi, governi, associazioni di imprese, Borse Valori, Commissioni o Organizzazione dei Paesi più sviluppati hanno emesso leggi, decreti, regolamenti, codici professionali e di categoria che possano meglio delineare il campo etico morale degli operatori economici. Ciò grazie alle politiche aziendali di governance, di controlli interni e di valutazione del rischio d’impresa.

In Italia, per le medesime finalità e già dai primi anni del secolo scorso, sono state emesse importanti regolamentazioni.

A scopo espositivo e non esaustivo, per esempio, il Codice Preda o di Autodisciplina emesso dalla Borsa Valori di Milano nel 1999 e revisionato nel 2006 e improntato sul principio del comply or explain. E più precisamente, concretizzantesi nella facoltà delle aziende di adeguarsi alle norme comportamentali prescritte nel Codice o, in alternativa, di spiegare le motivazioni per cui non si sono uniformate ad esse per di più, prevedendo l’istituzione all’interno del C.d.A. di un organo di controllo interno dedicato e denominato Comitato di Controllo Interno.

E ancora, per esempio, a vent’anni dalla sua adozione, il D.Lgs. 231/01 disciplinante la “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”. Quest’ultimo, nell’ordinamento italiano ha introdotto la responsabilità penale delle persone giuridiche, delle società, degli enti e delle associazioni anche prive di personalità giuridica verso la P.A. che si aggiunge a quella della persona fisica che, materialmente, ha commesso l’illecito (es. di reati rubricati e perseguiti secondo il decreto: indebita percezione di erogazioni pubbliche, truffa e frodi informatiche allo Stato e agli Enti Pubblici, corruzione e concussione, falsità in monete, carte di credito e valori di bollo, commissione di reati societari come falsità in bilancio, relazioni e comunicazioni sociali, impedito controllo, commissione di delitti terroristici ed eversivi, abusi di mercato, reati ambientali ecc.). Con tale decreto si è maggiormente punito il compimento di alcuni illeciti penali con il coinvolgimento del patrimonio degli enti e degli interessi economici dei soci i quali, fino all’entrata in vigore della norma, non pativano conseguenze dalla realizzazione di reati commessi a vantaggio della società, degli amministratori e/o dei dipendenti.

Tuttavia, la legge prevede che vi sia esonerabilità dalla responsabilità e quindi la non sanzionabilità, se per esempio nell’ambito di un procedimento penale per uno o più dei reati societari imputabili ex D.Lgs. 231/01, l’impresa o la persona giuridica dimostrino di aver adottato dei modelli di organizzazione, di gestione e di controllo idonei a prevenire la realizzazione del fatto di reato incriminato, provando quindi che la commissione del reato non deriva da una propria “colpa organizzativa”, anche mediante l’affidamento a un organo di controllo interno (Organismo di Vigilanza, O.D.V.) di vigilare sul rispetto del modello adottato secondo le disposizioni di legge. Le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato ex D.Lgs. 231/01 sono: sanzioni pecuniarie, sanzioni interdittive (tra esse: interdizione dall’esercizio di attività, sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze, concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, divieto di contrattare con la P.A., salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi, sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, divieto di pubblicizzare beni o servizi), confisca, pubblicazione di sentenza.

Non meno importante, infine, nell’elencazione meramente esemplificativa delle buone pratiche adottabili, la Legge sul Risparmio n. 262/2005, indirizzata alle società quotate in borsa con la finalità, dopo i casi Parmalat e Cirio, di tutelare i piccoli risparmiatori. Ciò, con l’assegnazione di maggiori poteri agli azionisti di minoranza, con maggiore rigore nella trasparenza, anche nell’adesione alle norme comportamentali del Codice Preda già richiamato e con maggiori responsabilità riconosciute in capo a chi si occupa della redazione dei documenti contabili societari, con il conferimento di maggiori poteri di vigilanza da parte della Consob.

Tutti gli strumenti di best practices sin qui elencati assieme ad altri, quali Tutela del Consumatore, Sicurezza sul posto di lavoro, Sicurezza informatica, Qualità e Certificazioni Iso9001, fanno sì che debba essere rispettata la competitività aziendale dell’ente, dell’impresa, dell’associazione, dell’organizzazione, senza per questo violare o forzare le disposizioni normative, di etica e di buona condotta. 

Qualora questo succedesse, potrebbe determinarsi un danno alla reputazione della stessa società nei confronti di partner e clienti. È evidente allora che, una società solida e rispettosa delle regole – non solo di mercato, ma anche etiche e di buona condotta – ispira di certo più fiducia nel pubblico e nei finanziatori.

È chiaro allora che, l’azienda seria e virtuosa deve porre per se stessa e per il suo entourage le basi di una tutela a tutto tondo che richiederà di procedere all’adeguamento capillare e continuo, step by step, del business aziendale alla normativa aziendale disciplinante il settore in cui in cui la medesima esercita la propria attività. La conseguenza, per la realtà aziendale sarà eccezionale e unica: avrà relazioni interne ed esterne che indurranno a recensire positivamente quella impresa, attribuendole prestigio, credibilità e affidabilità. Le percezioni, opinioni, aspettative e influenze positive riposte in quella particolare realtà organizzativa d’impresa, contribuiranno maggiormente a innalzare il sentiment nell’ambito della comunità fisica e digitale e ad attrarre a sé i suoi interlocutori, a discapito dei competitor. La reputazione di un’impresa, di un Ente, di un’Organizzazione, di un Comune o di una Provincia, oggi più che mai, segna una nuova conquista epocale nel sistema economico-produttivo contraddistinto dalla internazionalizzazione delle imprese e dalla globalizzazione dei mercati finanziari. Infatti, la corporate reputation, attraverso un’attenta analisi e mediante dei qualificanti indicatori può essere misurata da esperti del settore (analisti, matematici), concorrendo così alla creazione di uno status reputazionale tangibile e certificato che sarà in grado di mettere al riparo la realtà organizzativa dell’impresa o dell’ente da ogni potenziale attacco, anche di natura virtuale. Tra gli indicizzatori dell’asset reputazionale possiamo annoverare: la customer satisfaction (fidelizzazione della clientela, assenza di reclami e similari), influencer marketing (capacità di influenzare e fidelizzare in positivo la clientela), social & marketing positioning (misurazione della posizione acquisita all’interno dei social network in termini di sentiment e performance del brand, anche con sguardo ai competitor posizionati all’interno del mercato di riferimento), controll risks (analisi dei maggiori rischi nel mercato di riferimento anche in relazione ai competitor). È evidente, che ottenuta la certificazione reputazionale, ai fini della strategia aziendale e/o dell’Ente, occorrerà procedere con l’ordinario monitoraggio reputazionale per avere sotto controllo l’acquisito reputation status, per prevenire attacchi reputazionali e/o per adottare rimedi in caso di rischio o di attacco reputazionale. La reputazione, quale concetto relazionale che si costruisce grazie all’interazione tra più soggetti, generando vincoli e opportunità, ha natura dinamica e transitiva. Si modifica e evolve a seconda della cultura sociale e del sentire comune, oltre che dai comportamenti etici e di condotta dell’impresa. Va da sé che la corporate reputation va doverosamente coltivata, riaffermata e monitorata. Le cause di un potenziale attacco alla reputazione certificata e non, possono essere le più disparate: interne o esterne. Tra le cause interne possiamo indicare le disfunzioni organizzative, gli inadempimenti contrattuali e legali, gli adempimenti errati e le omissioni aziendali con effetti domino, i comportamenti scorretti, non professionali e non trasparenti con fornitori, clienti ecc.; mentre, tra le cause esterne possiamo elencare gli attacchi di hacker, la diffusione di notizie false e tendenziose anche sui social, la contraffazione o falsificazione del proprio brand ecc. Quali le conseguenze di un tale attacco reputazionale? Immense e certamente disparate per essere in grado di aggredire l’impresa o l’ente dal punto di vista legale, produttivo, di mercato, anche con riduzione del valore delle quote societarie, con perdita di chance anche in termini di rapporti con partners e finanziatori nonché, in termini di perdita della clientela, calo del fatturato, declassamento del proprio rating e del proprio brand, devalorizzazione della mission aziendale ed altro. E allora, è sensato ritenere che una reputazione certificata, rispetto ad una non certificata, trovi maggiore tutela all’interno del mercato e delle aule di tribunale ove, in tale ultimo caso, il conflitto non è stato risolto in sede stragiudiziale, anche mediante l’ausilio di istituti deflattivi come la negoziazione assistita (D.L. 12 Settembre 2014 n.132, convertito in L. 162/14), la mediazione civile e commerciale (D.Lgs. 28/2010) o l’arbitrato (art. 806-840 c.p.c.). In via definitiva, la reputazione aziendale è senz’altro un asset strategico per il valore d’impresa poiché trasferisce valore economico all’azienda. Celebre la frase del noto finanziere Warren Buffet: “Ci vogliono vent’anni per costruire una reputazione e cinque minuti per rovinarla. Se pensi a questo, farai le cose in modo diverso”.

Come è possibile dedurre da quanto sino a ora rappresentato, l’adozione da parte dell’azienda del codice etico e di condotta, nonché l’adozione di modelli organizzativi, di gestione e di controllo come quelli previsti ex D.Lgs. 231/01, ma anche l’adozione strategica degli strumenti di due diligence, compliance, internal auditing, congiuntamente a tutte le altre best practices suindicate, ivi inclusa l’adozione di modelli a Tutela di Privacy, GDPR e in tema di antiriciclaggio, nonché l’ultima menzionata certificazione reputazionale (non per questo meno importante), acquisiscono maggiore rilievo quando a adottarle sono aziende sequestrate o confiscate ai sensi del Codice Antimafia, D.Lgs. 159/2011, modificato dal D.L. 76/2020, convertito in L. 120/2020. In tal caso, infatti, il bene o l’azienda sequestrata va bonificata e riportata alla legalità, fatta salva la confisca definitiva. L’amministratore giudiziario, in collaborazione con il giudice delegato del Tribunale – sezione misure di prevenzione e in sinergia con la polizia giudiziaria, terminate le indagini patrimoniali, in seguito alla notifica del decreto di sequestro procede, per il tramite della P.G., all’esecuzione del sequestro mediante l’immissione in possesso del bene e/o dell’azienda. Di lì in futuro, dunque, sarà l’amministratore giudiziario a gestire, amministrare i beni sequestrati, avvalendosi di uno staff di coadiutori e preposti (avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, analisti-programmatori ecc.) alla gestione dei beni sottoposti a misura di prevenzione, nell’ottica della bonifica e della restituzione del bene e/o dell’azienda alla liceità (con restituzione al preposto o alla ANBSC, in caso di confisca). Non a caso, nel nostro sistema economico, sempre più di frequente e con previsioni di crescita esponenziale, vi sono attività d’impresa gestite dalla criminalità organizzata che, peraltro, occupano i settori più disparati (agricolo, agriturismo, caseario, edilizia e costruzioni, alberghiero, grey economy ecc.). Tale tipo di attività criminale riesce a influenzare l’allocazione di investimenti e di risorse, distorcendo le normali regola della concorrenza. Ecco che per ridurre il gap tra gestione lecita e illecita di attività d’impresa, le disposizioni normative del Codice Antimafia e successive modificazioni. prevedono l’adozione di strumenti efficaci in contrasto alle mafie. E cioè, le cosiddette misure di prevenzione (personali e patrimoniali) tra le quali, vi sono il sequestro e la confisca dei beni, anche di natura aziendale e che si prefiggono di sottrarre alla disponibilità di chi delinque beni e aziende (quote societarie, conto correnti ecc.) allorquando, il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta; e allorquando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La finalità è quella di sottrarre la disponibilità temporanea (sequestro, ex art. 20 Codice Antimafia) o definitiva (confisca, ex art. 2 Codice Antimafia) del bene o dell’azienda ai gruppi criminali per ripristinare la legalità, depauperando anche a livello simbolico la forza della criminalità. 

Per comprendere meglio, è utile pensare al riutilizzo dei beni sequestrati e confiscati che, una volta bonificati, creano da un lato, opportunità di lavoro e di ricchezza sul territorio; e dall’altro la diffusione della cultura della legalità e dell’impresa che opera secondo le regole. Solitamente, le principali destinazioni non imprenditoriali dei beni sequestrati e confiscati nel riutilizzo si pongono come obiettivi: l’aggregazione sociale, l’informazione e l’educazione, la tutela delle fasce deboli, la riqualificazione urbana, le attività ludico-sportive-ricreative ecc. 

I beni requisiti, dopo la confisca, nella disponibilità dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) sono certamente più cospicui in termini di beni immobili, ma non è insignificante anzi, è in esponente crescita, il numero delle aziende e dei cespiti aziendali sottoposti alle misure di prevenzione. Spesso i beni sequestrati e confiscati non versano in uno stato di conservazione e di redditività ideale, in particolare versano in tale stato le imprese, che di frequente già dopo il sequestro e nel periodo tra sequestro e confisca definitiva, perdono la competitività a stare sul mercato. Tale fenomeno di devalorizzazione, non necessariamente è generato dalla crisi del mercato bensì, dalla malagestione da parte della proprietà criminale prima dell’adozione della misura di prevenzione, dalla chiusura degli affidamenti bancari post-sequestro, dalle lunghe procedure di sottrazione dei beni nella disponibilità della compagine criminosa, nonché dall’iter burocratico per il riaffidamento dell’azienda ad una nuova compagine. 

Ecco dunque, che il Codice Antimafia per facilitare l’attività dell’interprete raccoglie in sé le procedure di gestione, destinazione ed assegnazione dei beni confiscati, oltre le disposizioni in materia di misure di prevenzione, prevedendo tra queste ultime, agli artt. 34 e 34 bis “l’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende” (nel caso in cui le attività economiche anche di natura imprenditoriale siano sottoposte a misure intimidatorie o di assoggettamento alla mafia), nonché “il controllo giudiziario delle aziende” (nel caso in cui sussistono circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività). 

Per dare contezza circa l’importanza delle misure di prevenzione ora citate, basti pensare che, di recente, il Tribunale di Milano, sulla scorta di indizi sufficienti, ha previsto l’applicazione dell’art. 34 D.Lgs. 159/2011 all’azienda Uber Italy S.r.l. (leader nella consegna pasti a domicilio o ridesharing), per avere accertato l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori “vulnerabili” (riders), con l’ipotesi della criminalità da profitto. Pertanto, l’auspicio per la realtà aziendale menzionata è che, attraverso la misura di prevenzione voluta dall’A.G., vi sia l’effettiva bonifica e la restituzione alla legalità dell’azienda, con il recupero dell’economia legale dell’attività d’impresa che, certamente, necessiterà di fare proprie tutte quelle buone pratiche messe in evidenza, non solo per garantire continuità lavorativa all’azienda e ai suoi lavoratori, ma anche per affermarsi quale impresa competitiva sul mercato per la mission esclusiva che occupa, senza però per questo violare le disposizioni normative, di etica e di buona condotta, con la conseguente inevitabile conquista di una buona reputazione aziendale in ragione del condurre gli affari in maniera universalmente riconosciuta come etica, onesta, corretta, trasparente e virtuosa. →

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