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Euromediterraneo. Il ruolo dell’Italia

di GIOVANNI MOLLICA –

 Povero di materie prime e di grandi industrie; con un livello di istruzione e un Pil pro capite inferiori alla media Ue; un agroalimentare raramente in attivo e frenato da norme comunitarie penalizzanti; una Ricerca & Sviluppo cronicamente priva di investimenti; una tassazione che potrà (forse) scendere di qualche punto ma non sarà mai competitiva con i paradisi fiscali e, infine, con un debito pubblico mostruoso che impedisce di effettuare gli investimenti necessari, l’Italia è un Paese che si aggrappa al turismo e alla manifattura lombardo-veneto-emiliana per non affogare economicamente. Ma l’obiettivo di qualsiasi governo responsabile non può essere sopravvivere, bensì tentare di ridurre il debito e attuare quelle riforme strutturali che, in un drammatico circolo vizioso, impediscono una crescita che si autoalimenta. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), provvidenzialmente concepito dall’Ue, serve a questo. A patto che non si interpreti come l’ennesimo strumento necessario per nascondere la polvere dell’inefficienza sotto il tappeto. La Commissione europea è stata chiara: o si entra nell’ottica di un Piano per le prossime generazioni (Next Generation Plan EU) oppure niente aiuti.

Diviene così inevitabile capire in quali settori economici un Paese così può creare quel valore aggiunto che gli consenta di crescere realmente, invece di continuare a perdere terreno, a Nord come a Sud. In altre parole, quale sia il ruolo che può occupare nel panorama euromediterraneo senza porsi in competizione con altri più forti e capaci. Che finirebbero per stritolarlo.

Per strano che possa sembrare, la Globalizzazione, ampliando e rendendo organica  al prezzo finale di un bene la quota di valore aggiunto determinata dal trasporto e dalla distribuzione, ha offerto una straordinaria opportunità. Grazie a essa, si può pensare di captare quella, affatto trascurabile, quota di ricchezza che si crea durante il percorso tra il luogo di produzione e l’utente finale. Lungo quella supply chain – oggi significativamente intesa come ultimo anello della catena del valore.  Una ricchezza che, a differenza di altri geograficamente meno favoriti, non siamo stati ancora capaci di cogliere. Eppure, sarebbero bastati un po’ di lungimiranza, di sano buon senso e di onestà intellettuale per capire che un Paese con 8 mila km di coste, saldamente collocato da Madre Natura nel cuore del Mediterraneo, ancorato all’Europa ma a soli 140km dall’Africa, equidistante da Gibilterra e dal Mar Nero doveva proporsi come collettore dei flussi di merci che attraversano il piccolo ma ancora importantissimo, Mediterraneo. Crocevia di una quota importante degli scambi tra tre continenti, uno vecchio e ricco e due più poveri ma in impetuosa crescita. Ma questo è solo un aspetto del “problema Italia”, ritenuta, fino all’arrivo di Draghi, il malato d’Europa proprio per quelle patologie che il Pnrr dovrebbe guarire. Per non fallire ancora una volta, però, è indispensabile che la politica nazionale e locale allarghino i propri orizzonti, geografici e temporali; oltre il limite della convenienza personale e di partito. In altre parole, che la politica diventi Politica. Al livello più alto, Draghi compirà questo miracolo? Lo speriamo, ma il suo impegno personale e quello del suo team – fondamentale la scelta dei componenti e alcune scelte non sembrano felici – non bastano. Una nazione è un sistema enormemente complesso e basta che una parte non funzioni come dovrebbe per rallentare o vanificare un processo che richiede scelte rapide, uniformità di vedute e pugno di ferro in guanto di velluto.

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