Inquinamento atmosferico

Sos Clima: la sindrome di Greta-Cassandra

di Mauro Alvisi e Antonietta Malito

La Terra è in pericolo e con essa l’intera umanità. I repentini cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova la capacità di adattamento di tutti gli esseri viventi. 

L’impatto del riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, il progressivo innalzamento del livello del mare, i numerosi e devastanti incendi boschivi, gli eventi metereologici estremi (siccità, alluvioni, uragani, ondate di calore) sono fenomeni a cui assistiamo sempre più spesso, che determinano ovunque danni economici, distruzione e morte. Ma la cosa più preoccupante è che – sulla base di ciò che sostengono gli esperti – ci si aspetta possano diventare ancora più intensi e frequenti nei prossimi anni. 

Non c’è più tempo da perdere. Servono interventi urgenti e mirati per salvare il salvabile. Intervenire prima che sia troppo tardi è un imperativo ma anche un dovere a cui nessuno può più sottrarsi. 

La Cop26 di Glasgow

I cambiamenti climatici e i possibili rimedi da attuare per limitare le conseguenze sull’ambiente e sulle persone sono stati i temi al centro della recente Conferenza delle Nazioni Unite, nota come Cop26 (ovvero la 26esima “Conferenza delle parti”), che si è svolta a Glasgow (Regno Unito, Scozia) dal 31 ottobre al 12 novembre. 

Il vertice internazionale, fortemente influenzato dalla pressione di milioni di giovani che si sono mobilitati nelle strade e nelle piazze di mezzo mondo, ha ospitato oltre 30mila delegati, tra cui i rappresentanti di 197 Paesi, esperti climatici e attivisti. La Conferenza è servita ai grandi della Terra per discutere, negoziare e raggiungere quei compromessi indispensabili per porre in essere le misure e i sistemi di controllo necessari per produrre, nel medio-lungo termine, il cambiamento di cui il pianeta ha bisogno per sopravvivere. 

Dalla Conferenza sul clima più importante di sempre, sono emersi, in particolare, tre risultati di rilievo: mantenere la temperatura entro 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali; ridurre gradualmente l’uso del carbone come fonte energetica e arrestare i sussidi economici e finanziari ai combustibili fossili; gli Stati che il prossimo anno non avranno ancora aggiornato i propri piani nazionali di riduzione delle emissioni, in linea con l’obiettivo suddetto, dovranno presentarli alla Cop27 d’Egitto, consentendo a tutto il mondo di allinearsi. 

Il Centro per la resilenza ai disastri ambientali dell’Università di Twente

Presso l’Università di Twente (Paesi Bassi) opera una struttura all’avanguardia nel campo della resilienza ai disastri ambientali: il Center for Disaster Resilience (Cdr), che riunisce le competenze di un’ampia gamma di ricercatori, dipartimenti e discipline interconnessi all’interno della Facoltà Itc (Scienze della Geo-informazione e osservazione della Terra) della città di Enschele. 

L’importante Centro è stato inaugurato il 28 ottobre scorso dalla principessa dei Paesi Bassi, Margriet Francisca, zia dell’attuale sovrano Guglielmo Alessandro, e da suo marito, il professor Pieter van Vollenhoven. L’inaugurazione, che ha coinciso con i 70 anni dalla fondazione dell’Itc, ha rappresentato l’occasione ideale per discutere sulla collaborazione e la ricerca interdisciplinare, con l’obiettivo di sviluppare e rafforzare la resilienza globale di fronte ai disastri. 

Il Centro dell’Università di Twente rappresenta il culmine dell’esperienza raggiunta dalla Facoltà Itc fino a oggi nel campo della resilienza ai disastri, delle cause alla base degli stessi e del loro impatto sulla società. Esso mira a facilitare lo scambio di conoscenze sviluppate presso le università e altri partner, come il Royal Netherlands Meteorological Institute (Knmi), la Croce Rossa e le organizzazioni locali, consentendo loro di operare in modo più efficace ed efficiente. Obiettivo del Cdr è prevenire che le persone restino vittime di questi disastri e contribuire a garantire che condizioni meteorologiche più estreme non conducano a disastri più estremi. All’inaugurazione erano presenti la professoressa Irene Manzella, che ha assunto l’incarico di coordinatrice del Cdr, e il professore Maarten van Aalst, detentore della cattedra Princess Margriet Climate and Disaster Resilience presso l’Università di Twente e direttore del Centro internazionale per il clima della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, che ha partecipato alla Cop26 di Glasgow. 

Irene Manzella  l’italiana alla guida del Cdr

Irene Manzella

È novarese la coordinatrice del Centro per la resilienza ai disastri ambientali (Cdr) dell’Università olandese di Twente. Prima di assumere questo importante incarico, la scienziata, che è anche professore associato in Ingegneria Geotecnica per la gestione del rischio, ha insegnato per quattro anni presso l’Università inglese di Plymouth. 

Laureata in Ingegneria per l’ambiente e il territorio al Politecnico di Milano, Irene Manzella ha conseguito nello stesso ateneo un Master di alta formazione in “Riqualificazione insediativa per la cooperazione e lo sviluppo”, a cui è seguito un dottorato di ricerca presso l’Ècole Polytechnique Fédérale di Losanna (Svizzera). La ricercatrice ha lavorato negli anni sulla teoria per migliorare i modelli e la resilienza ai disastri, realizzando alcuni prototipi in laboratorio (per frane, vulcani, inondazioni). 

La sua lunga esperienza accademica l’ha portata in giro per il mondo. È stata in Nicaragua, Francia, Germania, Svizzera, Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Gran Bretagna. Da qualche anno, ormai, a seguirla nei suoi sempre più frequenti trasferimenti, ci sono suo marito Stefano e i due figli di 9 e 4 anni. 

Da una sua idea è nato un video di sensibilizzazione ai disastri ambientali, realizzato con l’aiuto dell’artista Carey Marks. Il filmato, disponibile sul sito del Centro per la resilienza ai disastri ambientali, oltre a presentare la struttura, si propone di spiegare in maniera semplice, attraverso una serie di disegni, di cosa essa si occupi nello specifico. Oggi, Irene Manzella guida il Centro con grande impegno e passione, inseguendo il sogno di rendere la Terra un posto migliore.

Maarten van Aalst è uno dei più noti climatologi al mondo. Il professor Maarten van Aalst dirige il Centro internazionale per il clima della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa e detiene la cattedra Princess Margriet in Climate and Disaster Resilience, istituita nel 2018 presso la Facoltà di Scienze della Geo-informazione e osservazione della Terra (Itc) dell’Università di Twente. Van Aalst ricopre incarichi aggiunti presso l’Istituto di ricerca internazionale per il clima e la società della Columbia University e presso l’University College di Londra. È coordinatore dell’autore principale presso l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici, e fa parte del Gruppo consultivo scientifico e tecnico dell’Undrr (United Nations Office for Disaster Risk), del Leadership Group dell’UN Climate Resilience Initiative A2R (Gruppo direttivo dell’iniziativa di resilienza climatica delle Nazioni Unite), del gruppo direttivo dell’alleanza Partners for Resilience, e comitati consultivi di diversi programmi di ricerca internazionali sulla gestione del rischio climatico. Dopo aver completato un dottorato di ricerca in Scienze atmosferiche presso l’Università di Utrecht (Paesi Bassi) e il Max Planck Institute di Magonza (Germania), ha lavorato sull’adattamento ai cambiamenti climatici e sulla gestione del rischio di catastrofi con organizzazioni come la Banca mondiale, le banche di sviluppo regionale, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo svilippo economico), l’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) e diversi governi. 

– Lei è alla guida di questo importante Centro presso l’Università olandese di Twente. Di cosa si occupa questa prestigiosa struttura e quali obiettivi si prefigge di realizzare?

«Il Centro per la resilienza ai disastri (Cdr) della Facoltà di Geo-informazione e osservazione della Terra (Itc) dell’Università di Twente è un Centro di nuova costituzione, sorto per consentire di coordinare i lavori e gli sforzi in corso e già in atto presso l’Istituzione, per rafforzare e migliorare ulteriormente la collaborazione all’interno dell’università e in tutto il mondo e, soprattutto, per sviluppare una visione innovativa, originale e fresca, interdisciplinare e partecipativa della resilienza ai disastri, in quanto non vi è alcuna riduzione del rischio senza un approccio olistico, sinergico, focalizzato e comunitario».

– In un mondo orientato verso l’iperspecializzazione, auspicare la consapevolezza di un sapere e di un agire unitario in difesa dell’ambiente è ancora possibile o è mera utopia?

«È assolutamente possibile, se c’è un interesse e uno sforzo comuni. È una questione di scala dimensionale. Lavorare su diversi livelli è possibile e necessario. Abbiamo bisogno di una visione più specializzata e, diciamo, su micro-scala, per comprendere i fenomeni, poi abbiamo bisogno di ridurre lo zoom da quella per vedere le implicazioni che tale comprensione ha sul funzionamento generale dei nostri sistemi e società troppo complicati e iperconnessi. Quindi, non credo che uno escluda l’altro, possiamo continuare ad avere un approccio iperspecializzato insieme ad azioni unificate e più olistiche su scala più ampia».

– Da una sua idea è nato un video di sensibilizzazione ambientale che si propone, attraverso l’arte, di realizzare un mondo più a misura d’uomo. Perché ha pensato al disegno come allo strumento ideale per “educare” la coscienza collettiva? 

«Come esseri umani comprendiamo meglio usando tutti i nostri sensi. Credo che l’arte sia il modo migliore per svegliarne la maggior parte di essi e quindi conservare concetti e memorizzarli. Credo anche che parli ai nostri cuori non solo alle nostre menti e possa essere un potente strumento per comunicare e raggiungere le comunità. Essa può avere un impatto molto maggiore nell’aumentare la consapevolezza diffusa, che è un elemento chiave nella preparazione alle catastrofi e quindi nella resilienza. L’arte è anche la chiave per sviluppare l’approccio partecipativo di cui abbiamo bisogno, per attuare davvero un serio cambiamento. Ho intenzione di continuare a collaborare molto con gli artisti nel mio ruolo di coordinatrice del Centro e anche nella mia ricerca».

– Pensando alle minacce che incombono sull’ambiente, quali sono, secondo lei, le opportunità su cui occorre necessariamente puntare in uno scenario di breve-medio periodo?

«In termini di opportunità, dobbiamo sfruttare tutti i nuovi sviluppi tecnologici e scientifici per trovare soluzioni alternative e più efficaci ai disastri. L’Itc, con la sua vasta esperienza in Geo-informazione, è estremamente ben posizionato per farlo, ecco perché ho accettato questo ruolo, anche se significa trasferire tutta la mia famiglia in un altro Paese e molte altre sfide personali e professionali. Attraverso le proprie comunità di laureati ed ex allievi in tutto il mondo e la loro collaborazione anche con la rete 4TU ci sono le basi per costruire davvero qualcosa di utile, che possa guidare un vero cambiamento».

– Quali sono, invece, le emergenze da affrontare nell’immediato? 

«C’è molto su cui lavorare, c’è l’urgente necessità di intraprendere azioni concrete e a breve termine per ridurre l’aumento della temperatura e gli effetti dei cambiamenti climatici, compresi gli impatti sempre crescenti dei disastri. Difficile dire quali siano quelle più urgenti, la situazione è talmente critica che dobbiamo lavorare su tanti fronti diversi per poter vedere qualche cambiamento, per piegare un po’ quelle curve ripide. Sicuramente i governi devono impegnarsi concretamente per raggiungere le emissioni nette pari a zero, ma come scienziati dobbiamo rivedere i nostri modelli per adattarli ai mutevoli periodi di ritorno, all’alta intensità imprevista e agli eventi a cascata, integrando le tecnologie digitali per migliorare i sistemi di allerta precoce. Dobbiamo considerare i rischi sistemici, la vulnerabilità in tutti i suoi diversi aspetti e dobbiamo lavorare insieme alle comunità, agli stakeholder, alle autorità locali e nazionali per rendere attuabili le azioni di gestione del rischio».

– Esiste già un modello di resilienza che sia in grado di influenzare le decisioni strategiche dei governi e la società civile?

«Esistono diversi modelli per la resilienza, il problema è la loro attuale, effettiva implementazione e applicazione. C’è un’analisi costi-benefici alla base delle decisioni prese dai governi e dalle società. Il problema è riuscire a vedere benefici e costi non solo a breve termine ma anche a lungo termine. Anche se ormai il lungo periodo si sta accorciando sempre di più e la crisi climatica sta sensibilizzando progressivamente la popolazione. Quindi, c’è la speranza che almeno questo porti, infine, ad azioni più concrete».

– I disastri climatici sono sempre più frequenti in ogni parte del mondo. Pensa che dobbiamo abituarci a convivere con questi eventi estremi? 

«No, assolutamente no, se abituarsi significa non fare il possibile per affrontare la crisi climatica e agire concretamente. Sicuramente questi eventi stanno diventando più comuni, ma dobbiamo fare il possibile per ridurne il rischio ed evitare che aumentino ancora di più».

– La diffusione di fake news, in casi come la pandemia da coronavirus, ha generato ovunque grande confusione e panico. Oggi, a conclusione di Cop26, quali responsabilità ha l’informazione e quali effetti l’infodemia potrebbe avere sulla resilienza ai disastri ambientali?

«Non sono un’esperta degli effetti dell’infodemia, ma credo che in questo ci sia una doppia componente. Sicuramente la comunicazione e l’utilizzo dei social media hanno ampiamente diffuso la conoscenza delle problematiche sollevate dalla Cop26, suscitando in parallelo un flusso di fake news che può portare all’inerzia di una parte della popolazione. Per quanto riguarda il covid, c’è stata un’ampia diffusione di fake news ma anche di informazioni importanti e utili. Per i disastri è necessario istruirsi su come distinguere tra notizie vere e false e comprendere l’impatto nefasto che quelle false potrebbero avere sugli sforzi e sui progressi che stiamo facendo per aumentare la nostra resilienza».

– Come inquadrare il fenomeno mediatico dell’attivista Greta Thunberg nell’ambito della resilienza consapevole ai disastri? Le prossime generazioni saranno quelle di una intelligenza collettiva cooperante per il bene pubblico? 

«La mia esperienza personale con le mie nipoti adolescenti è che sono molto più consapevoli della situazione e delle sfide che stiamo affrontando ora con il Friday for Future e l’importanza data alla protesta di Greta Thunberg a livello globale. Possono identificarsi con lei e condividere le sue preoccupazioni e la sua battaglia. 

La vedo come una voce positiva e necessaria come sono quelle di altri giovani attivisti per il clima come Vanessa Nakate, Xiuhtezcatl Martinez, Leah Namugerwa, Eyal Weintraub, David Wicker e molti altri. Queste voci sono importanti per le nuove generazioni e altrettanto, se non di più, per quelle passate. Dobbiamo ascoltarle con attenzione, abbiamo molto da imparare da loro».

– Professor van Aalst, lei che è reduce dalla Conferenza di Glasgow, come valuta questo evento? Cosa ha rappresentato per il mondo? Lo considera di portata scientifica e ricaduta strategica sufficiente per i decision maker del pianeta?

Marteen Van Alst

«La Cop26 è stata “un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto” allo stesso tempo. I responsabili politici hanno ascoltato il contributo scientifico offerto dall’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) e hanno riaffermato l’importanza di evitare che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi, a far data dall’era preindustriale. Hanno anche riconosciuto che il clima sta già cambiando e che occorre fare di più per adattarsi e gestire i rischi crescenti. Tuttavia, mentre i Paesi hanno concordato alcuni passi avanti positivi, il pacchetto di misure sancito e stipulato non è sufficiente per raggiungere effettivamente quell’obiettivo di temperatura o per sostenere l’adattamento con il giusto livello di propositi, specialmente nei Paesi più poveri».

– Quali risultati ha prodotto Cop26? Quali saranno, secondo lei, le conseguenze delle scelte e delle non scelte che ne sono derivate?

«Il risultato principale potrebbe essere il riconoscimento globale che ci troviamo in un mondo che cambia pericolosamente e pertanto dobbiamo aumentare la nostra aspirazione sia nella riduzione dei gas serra, sia nel fronteggiare i crescenti rischi che già affrontiamo oggi. A mio avviso, le misure concrete su cui i Paesi hanno concordato una linea di conduzione non sono ancora pienamente all’altezza delle stesse aspettative. Tuttavia, gli Stati presenti hanno deciso di aumentare nuovamente gli obiettivi concreti per il prossimo anno. Questo proposito, la promessa di Glasgow, ora deve essere portata avanti in tutto il mondo, nei singoli Paesi, aziende, città e famiglie. La mia unica preoccupazione è che mentre stiamo facendo progressi, non li stiamo facendo abbastanza velocemente. Il problema sta peggiorando più celermente di quanto le nostre soluzioni stiano migliorando…».

– Potrebbe abbozzarci una breve visione dei best and worst scenarios che si prospettano in questo decennio 2020-2030 per i cambiamenti climatici e i disastri ambientali?

«Il cambiamento climatico che dovremo affrontare nel prossimo decennio è quasi interamente determinato dalle emissioni passate. Quello che facciamo per le emissioni è principalmente importante per i cambiamenti climatici che affronteremo più avanti. Quindi, indipendentemente da ciò che facciamo sulle emissioni di gas serra, per il prossimo decennio affronteremo eventi più estremi di quelli a cui siamo stati abituati in passato, inclusi eventi catastrofici senza precedenti, come l’ondata di caldo canadese della scorsa estate, ma anche le inondazioni tedesche, gli incendi mediterranei, australiani e americani, gli uragani più frequenti, ecc. Inoltre, ci aspettiamo più eventi composti, come quando si verificano forti piogge in aree appena colpite da incendi, che le rendono più vulnerabili a inondazioni e frane. In particolare, nei Paesi a più basso Pil, i rischi stanno aumentando anche a causa dei modelli di sviluppo, ad esempio la crescita delle città lungo le coste o alla foce dei grandi fiumi, con insediamenti informali spesso nelle aree più soggette a inondazioni. Quindi, il grande fattore che determina gli scenari di cui si tratta, è come gestiremo il rischio. Se siamo meglio preparati, possiamo affrontare molte delle sfide che ci vengono incontro. Ma se le disuguaglianze persistono e se ignoriamo il modo in cui aumentano i rischi, assisteremo a perdite e danni sempre più rilevanti». 

– La politica e la diplomazia occidentale e orientale, anche tra singoli stati, si trovano spesso tra opposte fazioni sui temi ambientali. Questo vale anche per la scienza?

«Nel Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) siamo molto fortunati a lavorare con una comunità globale di scienziati, con autori dell’attuale sesto rapporto di valutazione, di oltre 90 Stati in tutti i continenti e provenienti dai Paesi più ricchi e più poveri. Sebbene spesso portiamo prospettive complementari agli stessi problemi, condividiamo principalmente una comprensione molto chiara e comune del rischio che l’umanità deve affrontare e delle soluzioni che possono aiutare ad affrontarlo».

– Potrebbe elencarci cinque irrinunciabili mosse da attuare per la salvezza del pianeta, nel breve-medio periodo? 

1. «La prima priorità è semplice ma anche enorme: ridurre le emissioni di gas serra molto rapidamente. Ciò significa un immane sforzo in tutti i settori e in tutti i Paesi. I governi devono definire le politiche, ma le aziende e gli individui dovranno fare delle scelte. 

2. La seconda priorità riguarda l’adattamento. Dobbiamo investire nella nostra capacità di prosperare in un clima che cambia, analizzare i cambiamenti che stanno arrivando e prepararci a condizioni mutevoli. 

3. La terza priorità è aumentare la nostra capacità di affrontare shock e sorprese. È inevitabile che affronteremo più frequentemente condizioni senza precedenti e non possiamo stare al sicuro solo con un’ingegneria o un’agricoltura più intelligenti. Dobbiamo essere pronti ad affrontare tali condizioni quando si presenteranno. E questo spesso include un’attenzione speciale ai gruppi più vulnerabili della società. Per esempio, nella mia terra, i Paesi Bassi, bisogna pianificare ora la cura degli anziani durante un’ondata di caldo (che non era un pericolo di cui ci preoccupavamo prima del cambiamento climatico). Su scala globale significa anche sostenere i Paesi più poveri nell’affrontare le crescenti perdite e i danni che stanno subendo in un clima che cambia. 

Questo mi porta alle ultime due priorità, che sono davvero azioni abilitanti. 

4. La quarta priorità riguarda la solidarietà. Possiamo affrontare questo problema solo se riconosciamo che le spalle più forti devono sopportare il carico più pesante. Per inciso, i Paesi più ricchi (e le persone), che dovrebbero sostenere i più poveri, sono anche quelli con le più alte emissioni storiche, quindi sento che hanno anche la responsabilità morale di fornire quel sostegno alle persone più povere che hanno contribuito di meno al degrado ambientale, stanno soffrendo di più e hanno una minore capacità di affrontare i rischi crescenti. 

5. La priorità finale è aumentare la consapevolezza tra la popolazione generale, in particolare nella prossima generazione, sia sul rischio del cambiamento climatico, sia anche sul loro ruolo nel trovare soluzioni – come elettori, come consumatori e come individui nel proprio comportamento. Questo è anche un compito chiave per gli scienziati: lavorare insieme ai giovani, ai giornalisti, agli artisti, ai responsabili politici, alle aziende, alle autorità locali, ecc. Dobbiamo fare meglio nel comunicare chiaramente i rischi e nel dare potere alle soluzioni». 

Ricercatori e scienziati internazionali in ambito ambientale e del cambiamento climatico in atto, del calibro di Irene e Maarten, si arrovellano le menti nel controbilanciare scientificamente il piano inclinato dalle scellerate pseudo-decisioni dei capi di stato e di governo, come quelle, in tutta disarmante evidenza, insufficienti e palliative, seppur degne di minima significanza, scaturite da summit sul climate changing di Glasgow. Nel tentativo di mettere di nuovo in bolla il parallasse del futuro vivere e sopravvivere sulla terra. Nel mentre, si susseguono le dichiarazioni di moderata ma strombazzata soddisfazione autocompiacente di chi era in Scozia per prendere decisioni ultimative, che come in un sequel televisivo o cinematografico rimandano all’episodio successivo annunciandone l’epilogo. E fuori dal palazzo, per le strade del mondo imperversano gli inascoltati moniti di Greta Thunberg e di tante giovani figure che denunciano come il re sia ormai nudo e che occorra porre fine al bla bla time. Già, Greta. L’eponimo moderno della contestazione verde. La trasformazione della protesta della Beat Generation in quella della Bit Generation, social mediatica e poco incline a mediare. 

Greta, da molti potenti considerata una sorta di Cassandra del terzo millennio. Sì, stiamo parlando di quella Cassandra, figlia di Ecuba e Priamo Re di Troia, sacerdotessa del Tempio di Apollo, da cui ebbe in dono la facoltà della preveggenza. Una figura oracolare che, prevedendo e annunciando terribili sventure era invisa a molti, per lo più ai potenti. La stessa che aveva avvertito i concittadini troiani che nell’incavo del cavallo di legno, introdotto in città, si celavano i soldati greci, rimanendo inascoltata. Occorre rifletterci. Quella di Cassandra è anche una sindrome patologica dell’annuncio apocalittico che, per effetto dell’inferenza di un’altra sindrome, quella di Pigmalione, finisce spesso con l’autoavverarsi delle profezie. È sempre denotativa degli scenari di crisi culturale o di passaggi epocali dell’umanità. Annunciare la catastrofe, spesso più che prevenirla, la rende ineluttabile. Un problema che investe le dinamiche della comunicazione e dell’organizzazione reticolare dell’odierno villaggio globale. La frustrazione per l’incapacità di agire con efficace tempestività ha bisogno di una rappresentazione, di una liturgia simbolica, divergente ed etero riferita, rispetto ai decisori (non decisori), responsabili (non responsabili). Così che i media premiando infinitamente l’icona di Greta finiscono per decretarne la rimozione paranoica della sua funzione simbolica. Con l’acuirsi dei disastri ambientali, frutto di un comportamento noncurante estremo, la razza umana intera perde la capacità di esperire un’abilità cosmogonica di avvistamento di un orizzonte euforico. Innesco di una conseguente psicodemia, fattori di primaria inibizione della resilienza. La previsione del comune destino e degli scenari a tendere sembra essere, ogni giorno di più, l’obiettivo primario della scienza e della tecnologia. Previsione e prevenzione vanno a sovrapporsi. Va indagata la possibilità che la prevenzione possa anche deragliare nel business della prevenzione. Si prevedono gli scenari sociali, le catastrofi ambientali, gli indici delle borse, l’audience e i trend di consumo, le elezioni (con gli exit poll), l’orientamento scolastico e professionale (test attitudinali), le probabilità di longevità (esame Dna). In tutto questo comunque, bisogna ammetterlo, vi è la certa e apprezzabile avventura umana evolutiva della scienza. Le abilità prognostiche e predittive sono qualcosa di esaltante e funzionale al genere umano. Posto che non collidano contro l’iceberg visionario, immaginativo del mondo interiore. Il paradosso della resilienza alla catastrofe è quello che se non ridiamo al mondo una weltanschauung non saremo poi in grado di attivare i sensori razionali e scientifici della coscienza e della consapevolezza umana. Un cammino tortuoso dove le cose visibili richiedono un substrato limbico reggente invisibile e misterico, sapienziale, in una parola simbolico. Visibilia ex invisibilibus. La semantica della resilienza, che va a rappresentare un destino di nuovo euforico. E allora salvarsi finisce per dipendere da una macchina delle decisioni dotata di sette veri key buttons:

1. Apocalypse Now. Predizione disforica dei probabili rischi a breve;

2. New Euphoric Horizon. Visione di un orizzonte euforico possibile;

3. Cooperative Common Intelligence and Cure. Sostituzione diacronica della noncuranza con una concuranza collettiva (intelligenza collettiva cooperante) mosse N°1 e N° 4 del prof. Maarten van Aalst;

4. Decision Support System. Supporto scientifico alle decisioni chiave;

5. Resilience Training Programme. Allenamento della resilienza. Ovvero educazione e rieducazione alla percezione del rischio, all’adattamento alle mutazioni ambientali (mosse N° 2 e N° 5 del prof. Maarten van Aalst);

6. Fake Tracking. Determinare e riconoscere il vero e distinguerlo dal verosimile nella babele informativa (tema caro alla prof. Irene Manzella); 

7. Long instead of  Short Decisions. Generare idee e atti a lunga scadenza. →

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