Civilta

La Civiltà del Mare nella storia del Mondo

di Pasquale Amato

Cos’è il Mediterraneo per l’Occidente o, anche, cos’è l’Occidente per il Mediterraneo? Due spazi e due culle di civiltà, due complementi dell’esperienza storica di un mondo di mezzo, collocato tra civiltà antiche che si affermavano e civiltà da scoprire. Tuttavia, entrambi essenziali nel confermare l’esistenza di un vincolo nella storia che nelle peripezie di Odisseo, l’Ulisse dei nostri ricordi, trova la sua centralità quasi fosse il primo eroe di un Occidente che lascia l’Olimpo nel suo confronto con il mondo. 

Se l’Odissea è il poema epico cui ogni erede della cultura pre-ellenistica affida le sue origini ad Omero prima che ad un Erodoto o dopo di un Tucidide, nelle avventure di Odisseo si risolvono i rigurgiti della costruzione di un’identità a metà strada tra continente e mare. Una sorta di alba delle relazioni politiche ed economiche che ha collocato il Mediterraneo, e ciò che sarebbe stato l’Occidente, al centro della storia del mondo. 

Tra guerre e alleanze, ragioni economiche e di egemonia dei mercati, oltre che di affermazioni di religiosità vicine ma lontane nello stesso tempo pur condividendo lo stesso Dio, il Mediterraneo ha rappresentato non solo un lago per le civiltà pre e post-ellenistiche, o pre e post-romaniche o delle scorribande saracene, poi delle flotte delle potenze moderne o delle vie terrestri per la conquista di un passaggio ad Oriente prima del Canale di Suez, ma un luogo di confronto/scontro per la conquista del potere marittimo e del potere continentale. Uno spazio umanizzato e culturalmente liquido, dove alla contaminazione culturale si è sostituita la sovrapposizione strategica di linee di supporto delle politiche di potenza soprattutto dalla fine dell’Ottocento ad oggi. 

Insomma, l’Occidente ellenistico, poi romano e ancora man mano europeo con l’ascesa delle monarchie e delle politiche di potenza ha affidato al mito il senso più profondo della ricerca, del viaggio, della fantasia, del sogno, della lucidità, dell’ironia, della maschera, dell’infinita capacità di metamorfosi. Ma se il mito ha permesso anche l’affermarsi di una politica egemone, pur costretto a dividerne le vicende con l’Islam ottomano, se ha cercato di affermare nel Novecento una versione idealizzata di una modernità votata ad affermare una supremacy occidentale – nonostante le guerre e le rocambolesche avventure coloniali – il mito dell’Occidente guida ed esportatore di valori ha permesso a culture in letargo di risvegliarsi, di manifestare il desiderio di vedersi riconosciuta una posizione preminente e un’importanza senza eguali nella formazione di una nuova via rispetto a quella europea. Ciò è valso per il mondo arabo e oggi per la Cina del nuovo impero, del nuovo millenarismo neoconfuciano e postmaoista. Dopo i successi e le crisi economiche degli ultimi anni del Novecento, la necessità di riorganizzare i rapporti politici e militari all’ombra dei mercati produttivi, il Mediterraneo cerca con difficoltà di ricollocarsi al centro delle relazioni mondiali nel tentativo di non veder spostare il centro di equilibrio e di interesse verso Oriente. 

Una necessità se non una condizione senza la quale non si potrebbe arginare, rideterminandone i fattori economici e di potenza, quello spostamento strategico verso Occidente che vede la Cina libera di intraprendere iniziative economiche nello spazio europeo come nel Nord Africa e negli Emirati. L’idea che la Nuova via della Seta si proponga come una strada di pura partnership è una illusoria visione di un modello cooperativo, quello messo in campo da Pechino, che usa l’apparente cooperazione per affermare una prospettiva di contrattazione competitiva nel governo dell’economia mondiale che spinge le risorse in surplus in quei mercati capaci di assorbirne le produzioni perché a ridotta competitività. 

In questo gioco a chi governerà gli scambi domani, il Mediterraneo, spazio di convergenza di interessi strategici rilevanti che vedrà il Vecchio e il Nuovo Mondo porsi alla resa dei conti, non può essere abbandonato a se stesso non solo dall’Europa continentale quanto dagli stessi Stati Uniti, questi ultimi troppo occupati a guardare cosa accadrà in Oriente dalla finestra del Pacifico piuttosto che da quella che dà sull’Atlantico.

Ecco, allora che l’idea che la contrattazione economica

si possa condurre in un altrove geopolitico lontano dall’Europa rende ogni sforzo pericolosamente inutile se Odisseo non riprenderà il largo nel tentativo di dominare i mari, leggasi mercati, di domani. 

D’altra parte, crisi o non crisi di vecchie autocrazie non più funzionali ai nuovi modelli di potere e di potenza, l’idea che il Mediterraneo possa essere un mercato di supporto alla crescita di economie diverse significherebbe svuotarlo di significato storico e di trasformarlo in una periferia del nuovo mondo, del nuovo ordine. 

Corridoi energetici, infrastrutture e produzioni nuovamente allocate nella regione offrirebbero al mondo nuove opportunità di equilibrio impedendo fughe in avanti di Pechino, mentre la Russia cerca di conquistare quanto possibile tra i nuovi due litiganti: Cina e Stati Uniti. 

Non si inventerebbe nulla che non si sia già stato sperimentato, ma senza crederci. La soluzione sulla quale ipotecare il futuro dell’Europa e degli Stati continentali esisteva e correva tra le acque del Mediterraneo e non solo. Dalle politiche commerciali delle convenzioni di Youndè – che attribuivano all’allora Comunità Europea una capacità di cooperazione e di sostegno dei Paesi del gruppo Acp (Africa,-Caraibi-Pacifico) – alla volontà di realizzare una comunità mediterranea nell’ambito di una possibile Conferenza di Sicurezza e Cooperazione nel Mediterraneo sino alla definizione della European Neighbourhood Policy. Una politica allargata ai proxies dell’Unione appena nata a Maastricht, inaugurata con la conferenza di Barcellona che si riunì il 27 e il 28 novembre 1995, rivisitata nel 2001, poi nel 2004, rivista dopo le primavere arabe e sino al 2015. Una politica con la quale si volevano mettere in comune capacità di guida concreta dell’economia del Mediterraneo venute meno, però, per effetto di scelte delocalistiche dei membri a maggior possibilità che hanno ridotto l’interesse verso il Mediterraneo prediligendo l’Oriente, considerato a buon mercato. 

La stessa Conferenza di Marsiglia del 3 e 4 novembre 2008 non aprì alcuna strada possibile per rivalutare un Mare che non è solo un mezzo, ma un ambiente, uno spazio economico ed umanizzato nel quale si confrontano Oriente ed Occidente. L’idea di coniugare obiettivi politici – con la creazione di una politica per garantire sicurezza e stabilità – con obiettivi economici che nel breve periodo avrebbero dovuto permettere l’istituzione di una zona di libero scambio già nel 2010 coinvolgendo i Paesi del Medio Oriente (EU- Middle East Free Trade Area Initiative, MEFTA) sembra essersi persa nelle nebbie di un Occidente troppo occupato a seguire il fascino di Circe piuttosto che prendere lezioni di disimpegno da Odisseo.

Oggi, l’idea di inaugurare una Politica europea verso il Mediterraneo non può non prevedere come e in che misura confrontarsi con la presenza della Cina non solo all’interno delle società che gestiscono le infrastrutturali, come il Porto del Pireo o le ambizioni su Trieste e Genova, ma nella gestione o condizionamento delle politiche economiche di molti Stati che si affacciano nel Mediterraneo o che ad esso ne sono a ridosso.   

Ma qualunque potrà essere il mondo all’indomani del regolamento di conti tra Cina e Stati Uniti, ogni nuova formula di equilibrio tornerà a cercare il suo centro al di là delle formule possibili di nuove città-stato interdipendenti, votate ad una self-governance, che si affacceranno in futuro. 

Perché, alla fine, il Mediterraneo è e rimane il miglior esempio, o laboratorio mai chiuso, di interconnessione economica, politica e culturale tra popoli costretti alla cooperazione nella diversità. Una ragione che l’Europa potrà cogliere se seguirà le tracce del suo Odisseo e la Cina, maga del momento, ne dovrà tenere conto e scendere a migliori condizioni. →

I

n sintonia con le riflessioni e le ricostruzioni di lunga e media durata di Fernand Braudel, il cammino della Storia ci ha insegnato che le infrastrutture dei trasporti (fluviali, marittime, viarie; dal XIX Secolo anche le Ferrovie e le navi a vapore sempre più grandi e veloci e, dopo la metà del XX Secolo, il trasporto aereo in costante evoluzione) sono state e sono risolutive per determinare lo sviluppo o l’emarginazione delle comunità in qualsiasi epoca e in qualunque parte del mondo. Chi le possiede se ne avvantaggia. Chi non le ha o le perde, oppure viene declassato a strutture secondarie o arretrate, è destinato ad essere escluso dai processi produttivi e si avvia verso una graduale emarginazione e una dolorosa ma inesorabile decadenza in tutti i settori dell’economia e della società.

A sostegno di questa tesi ritengo illuminanti gli esempi tratti da esperienze della storia mondiale.

1. Civiltà fluviali, Civiltà del Mare e Strade di Roma

Sino alla prima fase del XIX secolo d.C. i trasporti più agevoli erano stati soprattutto fluviali e marittimi. Gli spostamenti via terra, dopo le grandi e sicure strade di Roma (in parte abbandonate dalla caduta del suo Impero d’Occidente), avevano coinvolto in particolare le ondate migratorie dall’Asia all’Europa dei popoli nomadi (da Attila a Gengis Khan). Successivamente un ruolo considerevole lo avevano svolto le carovane degli zingari che giravano con tutto il loro variegato mondo artistico da una città all’altra del tardo Medioevo e dell’Età Moderna per intrattenere il popolo nel giorno della Fiera. 

Altri generi di viaggio via terra erano stati quelli dei mercanti che trasportavano merci da un continente all’altro (come la leggendaria Via della Seta dalla Cina alle coste del Mediterraneo o dell’Atlantico) e quelli dei nobili che erano soliti viaggiare in carrozza e circondati da consistenti scorte a cavallo. Tra essi divennero famosi sul finire del Settecento e in buona parte dell’800 gli intellettuali protagonisti del “Gran Tour”.

Le civiltà più antiche della storia umana sono state quelle fluviali e del mare. Appartengono al primo caso le civiltà fiorite lungo le rive dei grandi fiumi come il Nilo in Egitto, il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia, l’Indo e il Gange in India, il Fiume Giallo e il Fiume Rosso in Cina. Sono esempi calzanti nel secondo caso le grandi civiltà sviluppatesi nel bacino del Mediterraneo: dapprima la Cretese e la minoica e in seguito quelle dei Fenici e dei Greci.

Il successo di Roma fu determinato dall’arte somma che i suoi ingegneri raggiunsero nel costruire strade. Questa singolare perizia agevolò notevolmente la grande espansione territoriale e politica. L’avanzata degli Eserciti, la conduzione vittoriosa delle campagne militari, il consolidamento nei territori conquistati e la difesa dei confini andarono di pari passo con il progresso incessante raggiunto dai Reparti del Genio che affiancavano i Legionari provvedendo a tracciare strade, costruire ponti temporanei o definitivi su piccoli o grandi corsi d’acqua, edificare solide opere di difesa e inventare nuovi sistemi per scardinare le posizioni dei nemici. I genieri romani arrivarono a tale perfezione che ancora oggi nel panorama dei territori che conobbero l’amministrazione romana si possono ammirare ponti che resistono all’usura di millenni e acquedotti che ancora trasportano l’acqua per città e campagne. Infine si portarono dietro la loro memoria storica di città nata su un fiume ripetendo la loro esperienza con l’individuazione dei siti più adatti per fondare tante città sulle rive di fiumi, che ancora oggi sono la conferma delle loro felicissime intuizioni. Le città protagoniste nel Mediterraneo sono quelle fondate sul mare da Fenici e Greci, mentre sono quasi tutte di fondazione romana quelle nate sulle rive dei fiumi nelle aree interne dell’Europa sia meridionale che continentale sotto il Danubio e il Reno e nelle Isole britanniche.  

2. Le Repubbliche Marinare

Un caso altrettanto emblematico di quanto abbiano inciso sui destini di intere comunità le vie e i mezzi di comunicazione è quello rappresentato dai successi e dai declini delle Repubbliche Marinare italiane (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia). La loro ascesa a protagoniste della storia commerciale e culturale fu inarrestabile dopo l’Anno Mille, arrivando a dominare i traffici tra Estremo Oriente e Mediterraneo. La loro epoca d’oro fu mirabilmente rappresentata dalle memorie di Marco Polo e la testimonianza delle loro commistioni con le culture dell’Oriente si evidenzia tuttora nell’arte e nell’architettura, soprattutto a Venezia e a Pisa. Le loro fortune, che sembravano inarrestabili, entrarono in un primo momento di difficoltà con la caduta dell’Impero Romano d’Oriente, cui mise fine l’occupazione turca di Bisanzio nel 1453 e la nuova denominazione di Istanbul data alla capitale. 

3. Dopo il 1492 il centro nevralgico dal Mediterraneo all’Atlantico

Tuttavia il vero vento di un crepuscolo inesorabile si abbatté su di esse dopo il 1492. Con la spedizione di Colombo finanziata dal Regno di Spagna e l’entrata nella grande storia del Nuovo Continente, il centro nevralgico dell’economia e dei commerci si trasferì, per la prima volta dopo millenni, dal Mediterraneo all’Atlantico. Nel corso del Cinquecento le Repubbliche Marinare conobbero un processo lento ma incessante di decadenza (con esiti affini ma non contemporanei per ciascuna di esse, in base alle condizioni geopolitiche ed economiche di partenza). Emersero nel contempo come nuove protagoniste nello scenario mondiale le città portuali e gli Stati che si trovavano sulle coste dell’Atlantico e quindi favorite nelle relazioni col nuovo Continente. Amsterdam divenne la Città-Mondo nel cosiddetto “Seicento Olandese”. Dalla fine del Seicento – dopo la duplice sconfitta subita dalla Flotta inglese – lo scettro di Città-Mondo passò a Londra, che lo detenne per più di due secoli per cederlo a New York  soltanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale.  Nacquero i Grandi imperi coloniali di Spagna, Inghilterra, Francia, Olanda e Portogallo.

Le ricchezze provenienti dalle Americhe cambiarono inevitabilmente i rapporti di forza e determinarono nuovi equilibri economici, politici e culturali. L’esigenza di uno sfruttamento massiccio delle risorse mai prima utilizzate di immensi territori diede vita ben presto ad una delle pagine più vergognose della storia con lo sviluppo, per opera delle nuove grandi potenze, del trasferimento via mare in catene con i vascelli dell’Asiento di oltre venti milioni di schiavi dall’Africa alle Americhe. La schiavitù era sempre esistita in varie parti del mondo. Ma la tratta degli schiavi messa in opera per oltre due secoli, con una spregevole competizione tra di esse, non si era mai verificata in quella misura. Essa alimentò le immense fortune, grazie allo sfruttamento del lavoro schiavile, dei proprietari europei delle grandi piantagioni di prodotti tropicali e sub-tropicali (tra cui il cotone, il caffè e il tabacco). Mentre le risorse minerarie, quasi intatte per assenza nei popoli originari di un pensiero economico fondato sullo sfruttamento e la corsa alle ricchezze, incrementarono le casse degli Imperi coloniali e dei banchieri che ne sovvenzionavano con prestiti le guerre per disputarsi troni, terre, titoli e ricchezze (famosi divennero i Függer di Augusta per le loro anticipazioni ai Reali di Spagna).  

4. Il caso di Timbuctù

Passando alla vicina Africa a Sud del Sahara, è esemplare lo splendore per quasi mille anni  e l’incontenibile decadenza dalla seconda metà del Novecento della città di Timbuctù. A segnarne le sorti fu il porto fluviale nell’ansa più a nord del fiume Niger. Grazie a questa prerogativa vi confluivano e si incrociavano tutti i traffici provenienti dal Mediterraneo e diretti a sud del Sahara e viceversa. Timbuctù costituì pertanto il punto di incontro tra l’Africa nera e l’Africa arabizzata e divenne il maggior centro di cultura arabo-berbera del Sudan occidentale. Ospitava l’Università islamica, un centinaio di scuole coraniche, convegni di studiosi dell’intera Africa occidentale, artigiani famosi per la lavorazione del cuoio, dell’oro, delle stoffe. Ma nel corso del ’900 l’ansa del fiume è arretrata di parecchi chilometri più a Sud, come conseguenza dello sfruttamento intensivo dell’economia coloniale europea (in questo caso della Francia), fondata sulla monocultura in ogni singola colonia. Ne derivò l’abbattimento della varietà delle colture e il progressivo ritiro della Savana, che da millenni fungeva da barriera protettiva rispetto al deserto, causandone la desertificazione. Così, della città floridissima, che per secoli era stata il suggestivo luogo d’incontro tra “il cammello e la piroga”, restano oggi il mito e il ricordo con i polverosi moli ormai insabbiati. 

Passando al nuovo continente gli esempi potrebbero essere numerosissimi. Mi limito a farne due particolarmente significativi: La Habana e in tempi più recenti New York.

5. Il caso dell’Avana

Negli imperi coloniali europei d’America acquisirono funzioni di rilievo le città dotate di ottimi approdi, in posizioni che erano punti di partenza e di arrivo delle navi che attraversavano l’Atlantico nelle due opposte direzioni, tra le cosiddette madri-patrie e le colonie. Un ruolo preminente lo assunse nell’immenso Impero Spagnolo la Città dell’Avana, capitale di Cuba, la più grande isola dei Caraibi. Il suo porto – posto felicemente in una baia che ne garantisce tuttora una speciale protezione rispetto all’Oceano – è stato per secoli il primo dove giungevano le navi e i convogli provenienti dalla Spagna dopo il lungo e insidioso attraversamento dell’Atlantico. Dal suo porto potevano poi dirigersi in tutte le altre colonie dell’Impero spagnolo. Lo stesso percorso era quello inverso: le navi e i convogli che trasportavano uomini e merci verso la Spagna facevano tappa nel porto cubano prima di intraprendere la traversata. La conferma dell’importanza assunta dall’Avana viene da un episodio dell’aspra Guerra dei Sette Anni (1756-63), la prima di dimensioni mondiali perché  combattuta non soltanto nello scacchiere europeo ma anche nei territori coloniali. Originata dalla rivalità tra Inghilterra e Francia, coinvolse nelle sue varie fasi le altre potenze e i loro possedimenti in tutti i continenti. Gli inglesi riuscirono nell’agosto del 1762 – dopo un assedio di mesi – a forzare l’accesso al canale della baia del porto dell’Avana (la Fortaleza del Morro)  e si impossessarono della città sino alla chiusura della Guerra. L’occupazione si dimostrò talmente strategica da spingere la Spagna ad accettare – nel trattato di Parigi del 1763 (che sancì il passaggio di Canada, Antille, Senegal e basi in India dalla Francia all’Inghilterra) – di cedere a Londra la penisola della Florida pur di tornare in possesso dell’Avana. E, per evitare il ripetersi dell’evento, il Re Carlo III di Borbone dispose la costruzione, nel fianco del Canale del porto dopo il Morro, della più grande fortezza spagnola dell’intera America Latina: la Fortaleza de San Carlos de la Cabaña.

6. Il caso di New York

Quanto a New York, sino alla metà dell’800 era una città importante ma senz’altro meno di Boston, l’Atene d’America da cui era partita la prima scintilla della Rivoluzione per l’Indipendenza, di Philadelphia (dove si erano svolte le assemblee costitutive) e della stessa Washington, capitale federale inventata per superare le rivalità fra i centri più storicamente rilevanti. L’avvio dell’ascesa di New York verso la sua espansione inarrestabile sino alla Città-mondo dopo il Secondo Conflitto Mondiale fu il fatto di essere scelta come terminale delle grandi vie di comunicazione. 

Una prima tappa fu, nel 1866, la grande strada transcontinentale che aveva come polo, sul Pacifico, San Francisco. Dopo un decennio arrivò la ferrovia transcontinentale dal Pacifico all’Atlantico, cui si aggiunse la scelta della Transcanadian Railway di fare di  Vancouver e New York le due stazioni terminali. Questa concentrazione delle due grandi ferrovie impose il porto alla foce del Fiume Hudson come il principale approdo dei bastimenti a vapore che – assieme alle ferrovie – rivoluzionarono i trasporti nel corso dell’800. 

Quei mitici bastimenti che imbarcarono milioni di emigranti europei diretti verso il nuovo Eldorado si concentrarono sempre più sulla Città della Grande Mela rendendo necessaria l’apertura del Centro d’Immigrazione di Ellis Island (un isolotto artificiale costruito coi detriti rimanenti dagli scavi della metropolitana di New York, alla foce del fiume Hudson nella baia di New York, dove dal 1892 al 1954 passarono circa 12 milioni di immigranti). 

Lo sbarco a New York consentiva spostamenti più agevoli verso i nuovi territori della grande conquista del West, che conobbero il boom con la corsa all’oro verso la California e l’Alaska. Tuttavia, molti dei nuovi immigrati vennero attratti da questa metropoli in sviluppo irrefrenabile e si orientarono a sceglierla come meta definitiva. La parte più ambita divenne ben presto l’isola di Manhattan e il suo rapido sviluppo rese indispensabile elevare i palazzi, per recuperare in altezza lo spazio per nuovi edifici. Nacque così il fascino dello skyline dei grattacieli nella Città della Grande Mela, motore dell’economia degli USA e del Mondo.

7.1. Lo Stretto di Scilla e Cariddi sino al 1860

L’ultima meta di questo ampio e variopinto viaggio nello spazio e nel tempo è lo “Stretto di Scilla e Cariddi”, il mito più antico e famoso della letteratura mondiale. Nella loro storia plurimillenaria Reggio e Messina hanno vissuto un destino comune, sia nel bene che nel male. A determinarne il comune percorso è stata innanzitutto la posizione geografica, al centro esatto del Mediterraneo e quindi luogo obbligato di transito di popoli, culture, merci, tradizioni, provenienti da diverse direzioni. La seconda prerogativa è stata la presenza dei due approdi naturali in uno Stretto attraversato sempre da forti correnti, con enormi masse d’acqua che ogni sei ore si riversano dal Tirreno allo Jonio e dallo Jonio al Tirreno, in quel confine tra i due Mari collocato nella parte più stretta dell’imbocco a Nord, la cui conformazione geologica è la chiara conferma dell’esistenza dell’istmo che aveva unito le due sponde: la Sella dello Stretto, a 80 metri di profondità. 

Lo stesso nome di Reggio, “Reghion”, evoca la “frattura”. Accanto a questi due elementi è stato sempre presente il terzo, costituito dalla condizione di confine tra due faglie terrestri che hanno originato tanti eventi sismici, tra cui gli ultimi di grande intensità sono stati quello del 1783 e quello catastrofico del 1908.

Attorno a questi tre caratteri permanenti si è sviluppata una serie infinita di eventi altalenanti. Si sono alternati periodi di progresso e di decadenza i cui destini sin dalle rispettive fondazioni (Zancle-Messina nel 734 a.C. e Reghion-Reggio nel 730 a.C.) sono stati generati dalle comunicazioni: per millenni i porti, dalla seconda metà dell’800 le ferrovie e oggi l’Aeroporto dello Stretto. 

I loro destini si divisero quando, durante il vice-regno spagnolo, Messina visse un periodo aureo grazie al Porto Franco e Reggio – con la perdita del Porto Naturale di Calamizzi per un bradisisma nel 1562 – conobbe la più grande fase di decadenza della sua storia. Sia prima che dopo il terremoto del 1783, il Porto Franco messinese consentì tuttavia la ricostruzione e lo sviluppo ulteriore. 

7.2. Reggio e Messina dopo il 1861

Uno strappo decisivo fu tuttavia inferto dalla caduta del Regno delle Due Sicilie nell’estate del 1860 e dal suo ingresso nel Regno d’Italia il 17 marzo 1861. Ne scaturì il crollo economico di Messina, provocato dal brusco passaggio dal protezionismo doganale borbonico (col privilegio del Porto Franco, che aveva attratto famiglie mercantili da diverse realtà dell’Europa, arricchendone l’economia e gli scambi culturali e rafforzandone il ruolo di centro propulsore dell’Area dello Stretto) al liberismo economico cavouriano, con il ridimensionamento in uno dei tanti porti italiani. Per dare l’idea del salasso che si abbatté sulla sua economia, basta ricordare che nel giro di soli tre anni dal 1860-61 Messina perse 33.000 posti di lavoro. Non fu quindi un caso che Giuseppe Mazzini fu per ben tre volte eletto Deputato nel 1866. 

Il leader repubblicano aveva perso la partita risorgimentale vinta dal suo acerrimo nemico Cavour ed era ancora costretto all’esilio londinese, soltanto perché una sua condanna a morte in contumacia emanata dal Tribunale di Genova nel 1859 era ritenuta ancora in vigore, nonostante la nascita del nuovo Regno d’Italia. Inoltre non era mai stato a Messina e i suoi seguaci in riva allo Stretto si contavano sulle dita di una mano. Venne eletto quindi come simbolo della protesta contro il nuovo Stato, la cui politica economica era stata impostata da Cavour come una conquista coloniale del Sud e della Sicilia e proiettata quindi su una logica di rapina delle risorse e di abbattimento delle punte produttive avanzate. E Messina e l’area dello Stretto erano tra quelle realtà evolute.

Seppure anch’essa colpita dalla politica di rapina del nuovo Stato, la resistenza di Reggio si rivelò maggiore. E fu dovuta a tre fattori: a) l’unicità mondiale del Bergamotto, principe mondiale degli agrumi, suo prodotto principale e unico; b) la costruzione del nuovo Porto artificiale negli anni Ottanta; c) il ruolo di terminale  ferroviario delle due ferrovie Tirrenica e Jonica. Ruolo che ebbe anche Messina, da cui si diramarono le linee ferroviarie dirette a Palermo e a Catania e Siracusa.

7.3. Lo spartiacque del 1908 e la ricostruzione 

Il catastrofico terremoto del 28 dicembre 1908 – il più distruttivo tra tanti che si erano abbattuti nell’Area dello Stretto – costituì uno spartiacque nella storia delle due città. Messina venne lentamente sostituita da Catania nella Sicilia Orientale e Reggio subì una serie di scippi di uffici regionali, trasferiti provvisoriamente a Catanzaro dalla città devastata ma tornati solo parzialmente per l’ostinata resistenza alla restituzione dopo la ricostruzione che in alcuni aspetti migliorò quella di Giovanbattista Mori che aveva rivoluzionato l’impianto urbanistico della città dopo il terremoto del 1783. Ne scaturì un lento ridimensionamento di Reggio e del suo ruolo primario regionale. 

Nel secondo dopoguerra sono continuate per alcuni decenni le fortune altalenanti delle due antiche città dello Stretto di Scilla e Cariddi. Messina  ha vissuto il suo canto del cigno con gli aliscafi e i Cantieri Navali Rodriguez e con l’incremento della flotta delle navi traghetto per il trasporto ferroviario. Dagli Anni Settanta il suo ruolo è andato sempre più scemando nella Sicilia Orientale a vantaggio di Catania, divenuta la Milano del Sud e nell’ultimo ventennio il terzo aeroporto italiano per traffico e passeggeri. Il penultimo colpo alla sua traballante economia è stata la chiusura dei Cantieri Navali Rodriquez nel 2013. L’ultimo è stato il declino – pilotato – dell’Aeroporto dello Stretto di Reggio, sottovalutato e trattato come un tema minore, piuttosto che prioritario, dalle élites dirigenti di entrambe le città nell’era del boom del trasporto aereo.

Il processo di ridimensionamento del ruolo di Reggio è stato rallentato e talora ribaltato da coraggiosi atti di resistenza (come le dimissioni del Consiglio Comunale di Reggio nel 1959, per protesta contro la mancata restituzione della Sezione di Corte d’Appello trasferita “provvisoriamente” a Catanzaro, in mezzo alle macerie del 1908) e alcune felici realizzazioni come la Fiera Agrumaria e il Parco Nazionale d’Aspromonte. 

7.4. …dalla Rivolta di Reggio del 1970-71 alla lenta spoliazione

L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario nel 1970 ha impresso un’accelerazione alla lenta azione di emarginazione di Reggio rispetto all’asse Cosenza-Catanzaro sempre più dominante. L’accordo di potere tra i maggiorenti delle  due città bruzie con l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro e dell’Università a Cosenza, con l’esclusione totale della più antica città della Calabria generò una corale protesta popolare scoppiata il 14 luglio 1970, protrattasi per oltre un anno nonostante l’isolamento mediatico e una pesante repressione e risolta nel 1971 con l’assegnazione a Reggio come Sede del Consiglio Regionale. 

Questa conclusione compromissoria fu vissuta negativamente da entrambe le parti. I reggini l’hanno interpretata come l’atto definitivo di una sconfitta epocale e definitiva, chiudendosi in un rancoroso e depressivo atteggiamento di rinuncia che ha originato un comportamento auto-distruttivo. →