Populismo

Il populismo in Europa: rischio democratico

di Athanasia Andriopolou

Basta parlare di populismo: il popolo, anche in Europa, si sta ribellando contro le élite che lo hanno ingannato e impoverito”. Le parole di Noam Chomsky (2018) facevano sollevare qualche sopracciglio: l’illustre filosofo riconduceva la “rivolta” del popolo contro le istituzioni dominanti, dette élite, alla fisiologica reazione al trattamento punitivo riservato alla classe dei lavoratori. La linea di scontro si sarebbe delineata quando apparve chiaro che le ricchezze generate dal sollecitato accrescimento della produttività erano state poi redistribuite in modi diseguali, e che a capo dei processi decisionali vi erano tecnocrazie non elette (es. la Troika), che di fatto (ancora oggi ndr) neutralizzano, vanificano il potere ideologico-politico dei partiti. Frustrazione, paura e disillusione sono i sentimenti collettivi che portano alla ricerca di un efficace diversivo alla sordità dei governanti, e che funge da portavoce delle inascoltate proteste “popolari”. 

Se l’opinione di Chomsky può semplificare un fenomeno che sta mettendo in crisi le nostre democrazie costituzionali, in molti condividono il suo approccio al populismo politico quale conseguenza della ripetuta mancata presa di “cura” di problematiche che, invece, presentano tratti constanti e persistenti nelle nostre società. Difatti, il populismo non è fenomeno inaspettato e imprevedibile, ma è il risultato di un processo di “compattazione” organica in unità ideologica delle reazioni espresse democraticamente “dal basso” e ripetutamente rimaste inascoltate, sotto la guida di leader “carismatici”, dalle capacità comunicative. 

Il populismo non è una novità del nostro secolo: si annida nel corpo delle strutture democratiche, nutrendosi di crisi come quelle sistemiche che sta affrontando senza soluzione di continuità l’Europa (economico-finanziaria, migratoria-umanitaria, pandemica), che sfidano i sistemi di governabilità svelandone le falle. La “normalizzazione dello stato d’eccezione”, (Cantaro, 2021) e lo stato di “permacrisis” Europea (crisi permanente) sono condizioni ottimali per l’emergere di orientamenti populisti, poiché, come è stato spiegato molto meglio di quanto si fa in questa sede, “il populismo irrompe, nelle sue varie forme, quando entra in crisi il costituzionalismo politico che riusciva a integrare il popolo nell’ordinamento giuridico-sociale” (De Giovanni, 2019). 

Tante le definizioni quanti gli studi dedicati al populismo. Nel linguaggio corrente, il populista è un “anticonformista”, un anti-pluralista, tendenzialmente un antidemocratico, uno che è in perenne contrasto con il potere governante, di sinistra e/o di destra, di livello nazionale o europeo che sia. La “ricetta populista” prevede come presupposto fondamentale la scomposizione della società in due parti contrapposte: da una parte, il focus centrale è il “popolo”, a cui si attribuisce integralmente la priorità politica. Dall’altra parte, l’“antielitarismo”, cioè la rappresentazione dicotomica del campo sociopolitico tra Noi (gli emarginati, i perdenti, i molti, “il popolo”) e Loro (l’establishment, l’1%, l’élite, i pochi). A questi criteri di fondo si aggiunge la assolutizzazione del principio della sovranità popolare e la contemporanea insofferenza nei confronti di limiti e contropoteri, cioè in ultima analisi, della Costituzione. 

Bisogna fare dei chiarimenti: in realtà, il populismo è un fenomeno che accompagna il concetto stesso della democrazia, non solo nella terminologia ma anche negli stessi principi venutisi a sviluppare intorno al potere legittimante delle istituzioni, cioè la “sovranità popolare”. Il populismo di cui parliamo re-interpreta però la sovranità popolare in chiave integralista, proponendo una struttura di democrazia “eccessiva” dove il potere popolare è pressoché illimitato, poiché sganciato dai limiti costituzionali. Non si dovrebbe perciò confondere il populismo con una democrazia “radicale”, e neppure con le qualsivoglia mobilitazioni popolari in fase di rivendicazione di diritti contestati, come poteva esserlo stata la Rivoluzione francese. Invece, la negazione dei principi costituzionali produce effetti che mutano il populismo da potenziale “correttivo utile” alle democrazie, a “minaccia seria” contro le istituzioni democratiche.  

Sono molti a sostenere che si tratti de “la risposta antiliberale democratica ad un [neo] liberalismo antidemocratico” (Mudde, 2019). Il populismo strutturato è emerso quando, al contrario di quanto stipulato nel “contratto sociale” democratico-rappresentativo, il potere rappresentante ha rinunciato all’esercizio del potere politico, limitando di conseguenza anche il potere di partecipazione del popolo, lasciando che la tecnocrazia monopolizzi il governo delle decisioni sia su quali problemi poteva avere il popolo, ma anche su come risolverli, di fatto quindi facendo “calare dall’alto” le decisioni, come accade alle autocrazie. Una forma di oligarchizzazione (pratica oligarchica ndr) delle società europee che ha favorito l’instaurarsi di partiti populisti tracciando una frontiera politica tra ‘people’ ed ‘establishment’. I populisti di destra, incardinati sul vocabolario xenofobo, sono riusciti ad articolare le istanze ignorate dai partiti di centro perché incompatibili con il progetto neoliberista, mentre i populisti di sinistra si appellano alla lotta di classi, seppure solo di imitazione marxista, riflettendo nel “popolo” le categorie dei vulnerabili. 

Il populismo non è contro la idea stessa della democrazia, ma contro la democrazia rappresentativa, quella pluralista, il governo delle maggioranze, poiché esse non coincidono più con la “volontà popolare”. 

Questa teoria si accompagna alla convinzione che le istituzioni abbiano deviato dal loro mandato originario e servano ormai interessi diversi da quelli effettivi del popolo. L’affidamento che fa il popolo al potere politico si aspetta che possa risolvere “le due questioni fondamentali, quella sociale delle condizioni di vita del “popolo” e quella identitaria del radicamento etnico-culturale di una comunità, nel vuoto di ogni forma di mediazione e di connessione di sistema” (Scoditti, 2019). La prima aspettativa è stata delusa durante la crisi economica, la seconda è stata “tradita” prima con le politiche sul multiculturalismo, poi con la fallimentare governance della crisi dei rifugiati. Sicché non vi è margine, per i populisti, per l’abbandono della promessa fatta alla stipulazione del contratto sociale, nemmeno di fronte al collasso dello Stato stesso. Il popolo è legittimato a recedere dal contratto sociale e a riscattare la propria sovranità. Lo Stato per i populisti diventa Leviatano nel momento in cui il popolo perde fiducia nel suo giuramento. I populisti fanno ricondurre metodicamente ogni azione o progetto politico fallito all’alveo delle prove inconfutabili di “tradimento” delle promesse fatte, legittimando la sottrazione di lealtà verso le istituzioni democratiche. Ecco perché, per le sue caratteristiche ingannatrici, il populismo è considerato “la forma più pericolosa, e oggi diffusa, di patologia democratica, anche quando assume le forme più accattivanti di democrazia ‘dei sondaggi’ o addirittura ‘telematica’” (Spadaro, 2017). 

Infatti, il populismo contemporaneo è facilitato nei processi di manipolazione del consenso dall’uso dei digital media che offrono canali di disinformazione sistematica capaci di intorpidire il pensiero libero e critico. La Costituzione è ostacolo alla fomentazione populista dell’immaginario collettivo con archetipiche rappresentazioni di un ritorno della tirannia: lo Stato costituzionale democratico desidera e promuove la pluralità nell’informazione. 

Sarebbe ingenuo ritenere che l’opinione pubblica non abbia potere contro le istituzioni democratiche: la assuefazione dell’opinione pubblica può corrodere il corretto processo democratico e, nel tempo, minacciare di morte la democrazia costituzionale. Democrazie costituzionali forti o fragili che siano, la storia ricorda che tutte sono a rischio: si pensi all’Argentina di Peròn, o al Venezuela di Chávez, ed oggi alla Polonia ultracattolica di Kaczyński e Rydzyk, e all’Ungheria di Orban, ove si concludono discutibili revisioni costituzionali contro i tentativi di riallineamento con le tradizioni costituzionali comuni europee, e si lanciano attacchi aperti al sistema giudiziario costituzionale. 

Nella sua vera essenza, il populismo è un fenomeno degenerativo della originaria democrazia costituzionale, travisando per interessi “pubblici” e per bisogni del “demos” tutto ciò che di volta in volta risulta indigesto alla ideologia populista. In apparenza, lo Stato costituzionale non viene intaccato, ma viene corroso lentamente ed impercettibilmente dall’interno: si propugna lo stesso “mito” di fondazione democratico, ma senza il radicamento costituzionale, e privilegiando incerte forme di democrazia diretta (i.e. la frequente indizione di referendum popolari, oppure tramite proposte di votazione digitalizzata). L’attuale crisi politica offre la fragilità di sistema necessaria per il completamento della narrativa populista, mettendo a nudo la limitatezza dell’intermediazione partitica a salvaguardare il delicato equilibrio tra poteri (poteri di “diritto” – poteri di “politica” – poteri di “popolo”). La sostituzione della politica con la tecnocrazia e la normalizzazione del “governo della contingenza” (Castellani, Rico, 2017), hanno progressivamente sostituito l’idea dei partiti quali categorie ideologiche/politiche di appartenenza, lasciando il sistema costituzionale-democratico senza fondamento. Spogliare il diritto dalla componente politica equivale ad avere un diritto rigido ed inflessibile, capace di sfociare in tirannia, mentre, allo stesso momento, la società “spolitizzata” (o spoliticizzata ndr) diventa un insieme di individui titolari di sole pretese giuridiche. L’equilibrio tra tutti questi rapporti interconnessi è un compito affidato al disegno costituzionale, dove l’efficienza di ciascun elemento è legata al corretto funzionamento di altri. 

Mentre il ragguaglio logico tra populismo e democrazia è più immediato, lo stesso non è invece per la relazione tra populismo e costituzionalismo, soprattutto perché l’esame di tale relazione non si basa tanto su dati “scientifici” quanto ideologici. Bisogna rammentare, infatti, che le Costituzioni non sono un elenco di regole rigide e “vuote” (cioè “politicamente neutre”, diceva Spadaro, 2009), ma la serie di valori “politici” (intesi in senso ampio) che contengono è funzionale proprio al contenimento: la limitazione e il vincolo di qualsivoglia conformazione politica (potere costituito) nelle forme consolidate in cui si goda di legittimazione e di consenso popolare (la democrazia). Tra i compiti della Costituzione, cioè, c’è anche quello “politico”, di stabilire confini valoriali capaci di arginare l’arbitrio dei poteri politici. Anche il “consenso popolare”, come i poteri governanti, incontra limiti costituzionali, imposti della stessa “etica costituzionale” fatta di principi e valori sulle astratte voci di “maggioranza”. La Costituzione salvaguarda l’equilibrio tra tutti i poteri: l’idea che il popolo sia “al di sopra delle parti” e perfino al di sopra della lex legum, la Costituzione, non mette in discussione solo la legittimazione istituzionale ma anche le fondamenta dello stato costituzionale. Peraltro, il “consenso popolare” è legato allo stesso sistema democratico rappresentativo, tutte le volte che si compiono scelte a favore del bene “superiore comune”. Nelle democrazie ben funzionanti l’“etica costituzionale” e il bene superiore appaiono come “destino comune”. Il populismo fa una rivisitazione della costituzionalizzazione della gerarchia del sistema dei valori, mettendo in discussione la prevalenza del sistema di valori costituzionali stesso (C. Crouch, 2003). Eppure, al contrario delle idee di molti populisti, la prevalenza dei valori “etici” costituzionali sui poteri e sulle “maggioranze” (nel caso populista “plebiscitarie”), non equivale affatto a “mera democrazia”, ma al contrario, sono tali limitazioni che impediscono al sistema democratico di risultare arbitrario o abusivo. Detto diversamente, non vi è un parametro “obiettivo” migliore per controllare l’eccesso politico e per circoscrivere l’opportunismo delle maggioranze, fuorché quello su cui il popolo stesso vi fece affidamento, e cioè il disegno costituzionale. L’equivalenza “logica” della perdita della fiducia nelle istituzioni con la perdita della fiducia nel costituzionalismo democratico tout court è opera del populismo. Che il sistema di governo democratico non sia ineccepibile non è una novità, eppure è ancor oggi il sistema migliore che abbiamo. 

Come difendersi dal populismo? Intanto, c’è differenza tra le minacce populiste ideologiche più o meno latenti, e il populismo al governo. E questo perché, se è vero che il populismo può essere o non essere una sfida per la democrazia a seconda del suo carattere estremista, inclusivo o escludente, la scelta dell’istituzionalizzazione dell’antipopulismo, invece, apre la strada a finte varianti autoritarie nel presentarsi come l’unica forza in grado di sfidare palesemente uno status-quo diseguale, ingiusto e disconnesso. Ulteriormente, si trascura la varietà di critiche costruttive che talvolta il populismo fa sullo status di salute della democrazia. Insomma, se la crisi delle Costituzioni e del costituzionalismo è essenzialmente una questione di crisi di legittimazione, più che attivare strategie antipopuliste occorrerebbe che il potere politico (democratico) riconoscesse senza riserve il primato del diritto (costituzionale), riqualificando concettualmente (e non solo) la questione degli equilibri tra limiti e poteri posti alla sovranità ed alla democrazia. 

Bisogna ricordare che alla contrapposizione tra “popolo-élite” hanno contribuito gli stessi meccanismi di stampo neoliberista che ridussero il cittadino pensante in consumatore acritico. Il processo di “consumazione” delle menti e lo smantellamento del “simbolico” (spiega Dufour in The Art of Shrinking Heads, 2008), ha fatto sparire due soggetti della modernità, quello “kantiano” (soggetto critico e razionale), e quello “freudiano” (che costruiva certezze da prassi -nevrotiche- fondate su valori fissi). Il neoliberismo “flessibile” richiedeva invece un soggetto “vuoto”, precario e acritico, fluido e malleabile. Ancor prima di tentare, dunque, qualsiasi riforma sofisticata, bisogna forse andare alla radice e domandarsi seriamente quali scenari alternativi a quelli (deprimenti) neoliberali si possano prospettare al cittadino “post-moderno”.  

Un rimedio di immediato ed urgente contenimento del populismo dilagante sarebbero le azioni volte alla riqualificazione della cittadinanza, attraverso, ad esempio, una adeguata istruzione-educazione dei cittadini alla cittadinanza digitale, da accompagnarsi di pari passo con il rafforzamento della libertà di informazione e del pluralismo effettivo. L’interesse politico va ravvivato con i dovuti ausili per restituire valore al pensiero critico, riqualificare il corpo civico e risanare l’opinione pubblica. L’accento, cioè, non può che porsi sulla cittadinanza, quale istituzione che definisce il luogo di esercizio della sovranità popolare, ma determina anche il popolo come corpus di appartenenza politica partecipata. La perdita della fiducia è reciproca: recuperare la lealtà cittadina verso le istituzioni richiede che i vertici di potere rimettano al centro della soluzione di problemi complicatissimi anche quello della rivalutazione “reputazionale” dei popoli. →